Le regioni orientali della Repubblica democratica del Congo, dilaniate da oltre vent’anni di guerra, sono il territorio con il più alto numero di violenze sessuali al mondo. Le vittime sono spesso bambine. A Bukavu c’è chi si occupa di curarle, proteggerle, restituire loro il sorriso. Il nostro reportage tra le vittime del Kivu in cerca di riscatto
di Marco Trovato
«Fecero irruzione nel cuore della notte, mentre dormivamo. Erano sette, con i kalashnikov, ci intimarono di non gridare. Obbligarono mio marito e i nostri cinque figli a restare accovacciati in un angolo. A turno mi violentarono più volte davanti a loro. Io vedevo gli occhi terrorizzati dei miei cari. Avrei voluto consolarli. Speravo fosse solo un incubo orrendo, avrei voluto svegliarmi e abbracciarli. Ma stava accadendo davvero, l’inferno stava accadendo davvero…».
Il racconto di Marie Claire Feza è una nenia straziante. Le parole escono a rilento, sussurrate, monotone. La donna, 50 anni, un foulard sulla testa come una corona, al collo un rosario fosforescente, è accoccolata su uno sgabello. Lo sguardo nel vuoto, le spalle appoggiate alla parete del suo capanno di terra rossa e foglie di banano. Le campagne attorno a Kavumu sono silenziose. Qualche contadino pianta fagioli e manioca, un pastorello insegue le pecore nei prati, gli uccelli banchettano a insetti in un’aria satura di umidità.
«Quando finirono, mi trascinarono nella foresta. In quella direzione». Marie Claire indica le montagne: «Alle mie spalle sentii crepitare un mitra. Lo sapevo che avrebbero ucciso mio marito, pregavo che risparmiassero i bambini. Dopo due giorni di marcia forzata giungemmo all’accampamento. C’erano decine di ribelli interahamwe. Il capitano ordinò che mi lasciassero in pace. Da quel momento sarei stata la sua schiava sessuale. Per tre anni abusò di me ogni giorno. Un pomeriggio, approfittando di una distrazione dei miei aguzzini, trovai la forza di fuggire. Vagai per giorni nella foresta. Mangiavo radici e formiche. Arrivai al mio villaggio stremata. E qui cominciò un incubo peggiore».
Marie Claire, violata dagli estremisti hutu, fu rifiutata dalla sua comunità. «Dicevano che ero impura, infettata del seme del diavolo. Persino i miei parenti, che durante la mia assenza si erano presi cura dei miei figli, si rifiutarono di accogliermi. E la situazione peggiorò quando scoprii di essere incinta».
La donna vive ai margini del centro abitato. In una casupola isolata, grande appena per contenere un materasso logoro, dove ha cresciuto da sola il “figlio della vergogna”. «I suoi coetanei lo chiamavano “Interahamwe”. Ha dovuto lasciare la scuola. Oggi è un ragazzo, mi aiuta nei campi. Non ha amici, non parla con nessuno, eccetto che con me. La sera lo sento piangere in silenzio».
Il villaggio dell’orrore
Una storia terribile, fra le tante. Le province orientali della Repubblica democratica del Congo da oltre vent’anni sono infestate da gruppi armati che saccheggiano le ricchezze del territorio e aggrediscono la popolazione civile. Le donne sono le vittime sacrificali di una guerra innescata con il collasso dell’ex Zaire. Nelle foreste del Nord e del Sud Kivu i casi di violenza sono sistematici. La Missione delle Nazioni Unite dislocata nell’area ha accertato oltre 15.000 stupri in un anno: il più alto numero di crimini sessuali registrati al mondo. Solo una minima parte viene denunciata: l’impunità è quasi certa.
Kavumu, una trentina di chilometri a nord di Bukavu, è stata a lungo l’epicentro dell’orrore. «Qui, dal 2013 al 2016, quasi cinquanta bambine tra i 2 e gli 11 anni sono state rapite di notte dalle loro case, condotte in foresta e poi ripetutamente violentate da uomini armati», racconta Fammy Mikindo, direttore di Radio Télévision des Grands Lacs, che mi accompagna tra baracche ammassate lungo una strada fangosa. Sono stati gli sgherri di una milizia nota come “Djeshi ya Yesu”, l’Esercito di Gesù. «Il loro capo, Frédéric Batumike, un deputato provinciale oggi in carcere, incitava i suoi uomini ad avventarsi sulle bambine molto piccole, farneticava che gli stupri di vergini li avrebbero reso invulnerabili».
Bambina soldato
La guerra ha fatto a brandelli anche la vita di Patience Balolage, che oggi ha 35 anni e vive in un riparo di cartoni e plastica ai bordi del Lago Kivu. «Avevo 13 anni quando fui portata via da scuola assieme ai miei compagni da un gruppo di uomini sbarcati via lago nel nostro villaggio – biascica con un filo di voce –. Erano militari ruandesi affiliati all’esercito di Laurent-Désiré Kabila. Rastrellavano la zona in cerca di reclute per le battaglie contro i soldati di Mobutu. Ci portarono in un campo di addestramento. In tre mesi ci insegnarono a sparare. Il fucile era pesante, alto quasi come me, faticavo a imbracciarlo. Chi si rifiutava di combattere veniva ucciso. Per spingerci alla battaglia ci imbottivano di foglie di khat, un’erba eccitante».
«Ricordi il primo uomo che hai ammazzato?», le chiedo. Lei abbassa lo sguardo, tace un po’ prima di farfugliare, con una smorfia di dolore: «Era il mio migliore amico. Stava camminando davanti a me; d’un tratto inciampai e mi partì un colpo. Il proiettile gli si conficcò nella schiena. Lo vidi cadere come un sacco. Rantolava. Sulla maglietta si allargava una chiazza rossa. Soffocai un urlo. Non ebbi il coraggio di girarlo per guardarlo morire. Il capitano mi diede una sberla, poi mi intimò di non fermarmi». Per sei mesi ha camminato e combattuto, fino alla capitale Kinshasa. Alla fine della guerra, grazie all’aiuto di un missionario ritornò al suo villaggio. Tutto era cambiato. Soprattutto dentro di lei: «Ancora oggi la notte vedo fiumi di sangue che travolgono tutto. Quando fa buio ho paura. Non so se tornerò mai a vivere in pace».
Ferite indelebili
Il viaggio nel cuore ferito del Kivu è un calvario penoso, una rovinosa discesa nell’abisso umano. «Non ricordo nemmeno più tutte le volte che mi hanno violentata – sospira Filomena Minamzinzi, 58 anni, all’ombra di una papaia –. La prima volta ero terrorizzata, pensavo mi volessero ammazzare. Poi sapevo cosa mi aspettava, speravo solo che tutto finisse in fretta». Si ferma come a ricomporre un puzzle scombinato, i frammenti di un’esistenza andata a pezzi. «La prima volta furono gli uomini di Laurent Nkunda Batware (alleato delle milizie tutsi e oggi rifugiato in Ruanda, NdR). Per quattro giorni mi presero con la forza, a turno. Ero il loro trofeo di guerra. Una notte che erano intontiti dall’alcol, riuscii a scappare. Ma finii nelle grinfie dei loro nemici, gli interahamwe. Mi fa ancora male pensare a quei momenti. A un certo punto si accorsero che ero incinta. Mi massacrarono di botte. Infierirono sul mio corpo per farmi abortire. Mi abbandonarono agonizzante».
Un’amica la portò a braccia all’ospedale Panzi di Bukavu. Qui tutt’oggi opera Denis Mukwege, “il medico che ripara le donne”, specializzatosi nella cura dei danni fisici interni da stupro. In vent’anni ha soccorso più di 50.000 donne violentate. «Spesso arrivano da me con gli apparati genitali devastati», racconta il dottore congolese insignito del Premio Nobel per la Pace. «Dopo lo stupro, molte di loro vengono sottoposte a rituali brutali, come l’introduzione di oggetti affilati nella vagina. I loro apparati sessuali e riproduttivi sono compromessi. Un orrore che si abbatte anche su bambine in tenera età». Gira la credenza che il rapporto con una vergine sia un antidoto per malattie come ebola o l’aids. «Tempo fa ho operato una dodicenne con la vagina e l’utero completamente distrutti. Prima di lasciare l’ospedale mi ha domandato: “Potrò un giorno sposarmi e avere figli?”. Non ho avuto la forza di rispondere, la voce mi si è strozzata. L’ho guardata in silenzio. Se n’è andata con gli occhi umidi».
Angeli a Bukavu
A Bukavu, diverse realtà si prendono cura delle vittime di stupro. La “Cité de la Joie”, sostenuta dalla Fondazione Panzi, accoglie ogni anno da tutta la Rd Congo 180 donne violentate, fornendo loro una formazione in attività artigianali e corsi di autodifesa. Il centro “Ek’abana” di suor Natalina Isella, 70 anni (v. Africa 1/2020), ospita decine di bimbe di strada o ripudiate dai genitori stessi con l’accusa di stregoneria. «Una scusa per liberarsi di una bocca da sfamare – chiarisce la missionaria lombarda –. Sulla strada queste creature indifese sono costrette a subire ogni genere di abuso. Una piaga alimentata dall’ignoranza, dalla superstizione e dalla disgregazione delle famiglie squassate dalla crisi socio-economica».
A farne le spese, come sempre, i soggetti più deboli, loro: le bambine. «Sono due volte vittime innocenti – insiste Bernard Ugeux, Padre Bianco, 74 anni, missionario a Bukavu –. Dopo essere state abusate, le giovanissime donne sono anche considerate colpevoli: ripudiate dalla loro comunità, restano abbandonate a sé stesse. A commettere le atrocità non sono solo banditi o ribelli ma anche chi dovrebbe impedirle». Le violenze vengono cioè perpetrate anche da parenti, amici di famiglia, sedicenti pastori cristiani, uomini dell’ordine pubblico, soldati dell’esercito nazionale… Padre Ugeux gestisce, con un’équipe di laici congolesi, il “Centro Nyota”, fondato nel 1986 dalle suore dorotee e che funge oggi da scuola e da rifugio per 240 ragazzine. Si insegna francese, matematica, taglio e cucito, informatica e cucina. È l’ora della ricreazione. In cortile le ragazzine scherzano, corrono, giocano con la corda. «L’apparenza inganna – mi avverte la direttrice della scuola Noella Kadayi –. Dietro quei volti spensierati si celano storie terribili. Noi cerchiamo di farle affiorare con l’aiuto di psicologi e assistenti sociali».
Incubi e sogni
Isabelle (nome di fantasia, come quelli che seguono) ha 14 anni, la metà vissuti sulla strada. «Mia madre mi ha abbandonato che avevo sei anni: non so perché – dice con un tono non riproducibile –. Di giorno rovistavo tra i rifiuti in cerca di cibo. Dormivo sotto le tettoie buie e fetide del mercato. Non so dire quante volte mi abbiano preso con la forza. Ogni notte, un incubo. La gente mi dava della prostituta, ero un cattivo esempio. Ma io non potevo di certo oppormi. Non ho fatto nulla per meritarmi tutto questo». Beàtrice dice di avere 20 anni: ne dimostra una quindicina. In testa ha una ciocca di treccine elettrizzate, lo sguardo è abbassato sulle ginocchia.
«Sono rimasta orfana da piccola. Ho lavorato come domestica in casa di uno zio a cui mi avevano affidato», comincia a raccontare piano, come un ingranaggio arrugginito che si mette in moto malvolentieri dopo lunga inattività. «Una sera l’ho sentito entrare nella mia camera. Io fingevo di dormire. Lui è scivolato sotto le lenzuola. Ha cominciato a toccarmi. A baciarmi. Sentivo la puzza del suo alito. Non parlavo. Ero terrorizzata. Mi ha abbassato le mutande e in basso ho sentito un grande dolore. Avrei voluto fuggire, ma la mia casa era quella. Un po’ di settimane dopo, la mia pancia cominciò a gonfiarsi. Scoprii di essere incinta. Avevo 14 anni». Di lei e del suo bimbo si occupa oggi il Centro Nyota, attivo grazie all’aiuto di tanta gente comune (vedi box sotto). Mirelle, 17 anni, fu venduta dai genitori, poverissimi, a un vecchio interessato a una domestica che soddisfacesse anche i suoi desideri sessuali. «Ero piccolissima, però mi opposi. Per tutta risposta mi cacciarono di casa – sospira senza lasciar trapelare emozioni –. Non li perdonerò mai. Ma guardo avanti. Pensare al passato fa solo male. Voglio studiare, imparare un mestiere». «E sogno – conclude sciogliendosi in un sorriso – di sposarmi con un uomo che mi voglia bene, mi rispetti e mi protegga. Mi faccia sentire importante».
(Marco Trovato)
Aiutiamo le giovani assieme ai missionari Padri Bianchi
Il Centro Nyota ospita 240 ragazzine dagli 11 anni in su. Sono in gran parte orfane o abbandonate dai genitori. Vengono da famiglie poverissime, hanno vissuto sulla strada e subìto violenze e abusi. Al Centro ricevono cure e protezione. Obiettivo: aiutarle a superare i traumi e a costruirsi una vita. Un’équipe di tredici animatori e insegnanti congolesi tiene lezioni di alfabetizzazione, educazione alla sessualità, corsi professionali di cucina e di taglio e cucito. Uno psicologo assicura ascolto e supporto. Il Centro è gestito da Bernard Ugeux, 74 anni, Padre Bianco belga, che lancia un appello ai lettori di Africa: «Servono circa 20 mila euro all’anno per far funzionare tutta la struttura (l’80% sono gli stipendi di insegnanti, formatori, assistenti e psicologi). Circa 80 euro per inserire una ragazzina nella società. Abbiamo bisogno di aiuto per continuare ad assicurare il nostro prezioso supporto a queste sfortunate giovani in cerca di riscatto». Per contribuire, potete utilizzare i canali della Onlus Amici dei Padri Bianchi. Treviglio (BG) Viale Merisio, 17
Tel. 0363.41010 – provincia@padribianchi.it