“La luce del Kivu che ha stregato me e Luca”

di Marco Trovato

L’agguato mortale contro il convoglio del Pam, avvenuto lunedì 22 febbraio, ha portato le regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo sotto i riflettori dei grandi media. Ora sono già sparite. Un operatore umanitario, collaboratore della nostra rivista, che ha vissuto a lungo nel Nord Kivu e che era amico dell’ambasciatore Luca Attanasio, ci ha inviato una lettera intensa, viscerale, carica di dolore e di amore per quella terra nel cuore tormentato dell’Africa

testo di Roberto Morelfoto di Marco Gualazzini

Quelle terre ce l’ho impresse a fuoco nel sangue e nella testa, marchiato, forse a vita. Una regola del nostro mondo dice che dal Congo o ci scappi o ci perdi la testa per un amore troppo disperato.

Io appartengo alla minoranza della seconda categoria, quelli che quelle piste di fango e terra le sognano ancora in pieno giorno, a volte avvolte nella nebbia che rende tutto magia e altre ancora impestate dai bambini soldato che scavano a mani nude affianco a rifugiati disperati di non sai più quale attacco.

Per il Congo ci ho rimesso anni di studi, di ricerche, di lavoro in mezzo alla gente che mai più di ogni altro posto mi ha fatto sentire a casa, pure quando tutto pareva sul costante punto di crollare, pure quando incontrare uno chef di una milizia ribelle in una baracca appesa su colline pareva essere normalità, pure quando il fischio dei proiettili che si rincorrono tra le colline conche dà l’impressione di caderti sulle spalle.

Chi percorre quelle piste si maledice insieme alla storia del loro paese slabbrato da avidità inenarrabili, odi antichi e rimasticati senza fine, tele di complicità regionali e silenzi internazionali tollerati oltre ogni umana accettazione, paesaggi che bruciano gli occhi per il loro splendore.

Forse, in nessun’altra crisi in cui ho messo piede, ho sentito lo stesso conflitto interno, viscerale, che si prova a quelle latitudini. Il peggio, per chi fa il nostro mestiere, è la follia che ti assale quando tenti di raccontare quello che gli occhi si vergognano di vedere.

Luca, una persona con cui ci intendevamo su livelli più profondi che un ricevimento formale, una persona che l’Africa l’aveva scelta anziché farcisi trascinare, aveva sicuramente visto frammenti di questo quadro anche lui. Ed è voluto andare ai bordi, dove non sarebbe dovuto. E oggi lo rimpiango, rimpiango la nostra ultima chiamata durata troppo poco perché c’è sempre un meeting da inseguire.  Una chiamata tutta di Congo, per il Congo, sul Congo. La mia passione, la sua.  E adesso mi rimane solamente la domanda atroce di chi quella strada ce l’ha negli occhi e ha sulla schiena le buche che ti fanno balzare invertebrato. In un’altra curva del destino, ci sarei potuto essere io su quell’auto su cui stava invece seduto lui.

Tante sono le domande da chiarire, scarse le ricostruzioni finora. Ma per ora, per adesso, mi ritorna solamente quella luce leggiadra che tutto avvolge e che ogni sera va spegnendosi dietro la foresta in cui ha perso la vita. Quella luce che pure ieri notte ha calato per pietà un velo sui suoi figli disperati che da più di vent’anni cadono a milioni. E da ieri, pure su Luca, Vittorio e Mustapha.

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