Viaggio nella città santa di Touba, cuore spirituale della Muridiyya. Nel cuore assolato del Senegal c’è un’enclave religiosa, cresciuta a dismisura attorno a una grande moschea, dove lo stato non ha potere e l’unica legge che conta è quella del califfo, capo dei marabutti e massima autorità dei musulmani murid. Qui la vita è scandita da preghiere, lavoro e disciplina assoluta
di Stefania Ragusa – foto di John Wessels / Afp
A Diourbel, in un chioschetto, ho bevuto l’ultima Gazelle, la birra nazionale, e Madou – che mi fa da autista e anche da guida – ha fumato l’ultima sigaretta. A Touba, infatti, alcol e tabacco sono banditi. Così come il calcio, il cinema, il gioco d’azzardo e la prostituzione. Se fino a qualche anno fa, per “trasgredire” bastava spostarsi a Mbacké, a pochi minuti di auto, oggi i capi religiosi hanno ordinato che l’eccezione etica della città santa dei Murid sia estesa anche ai centri vicini.
La route si snoda piatta e sabbiosa nel Sahel. L’aria sembra liquida e fa molto, molto caldo. Per Cheikh Ahmadou Bamba, il fondatore della confraternita, erigere proprio la qui la Mecca dell’islam nero è stato un modo di omaggiare le sue radici (era nato a Mbacké, nel 1853) ma anche di dimostrare che la fede può far fiorire il deserto.
Marmi e preghiere
Il minareto più alto della Grande Moschea si comincia a vedere già a una decina di chilometri dalla città. Il cuore spirituale di Touba è un edificio grandioso, in cui i marmi bianchi di Carrara s’incontrano con quelli rosa del Portogallo, gli stucchi marocchini con gli intarsi coreani. Ha in totale cinque minareti e un’enorme e bellissima sala di preghiera.
Tutt’attorno c’è un grande ma silenzioso movimento di fedeli. Nei giorni del Gran Magal, la festa religiosa più importante, che ricorda il ritorno di Cheikh Ahmadou Bamba dall’esilio e che viene celebrata ogni anno il 18° giorno del mese di Safar (il secondo del calendario lunare musulmano), la moschea è gremita e anche solo avvicinarsi ai suoi cancelli richiede lunghe ore d’attesa. Ma la nostra visita a Touba si compie in un periodo tranquillo. Una signora anziana mi fa cenno di sedermi accanto a lei, all’ingresso della moschea. Dice che sono vestita bene perché ho coperto i miei calzoni con una gonna e mi sistema il velo. Anche solo per avvicinarsi alla moschea bisogna presentarsi in modo adeguato.
I canti dei Baye Fall
È contenta di vedere a Touba una donna bianca. Nell’aria si sentono gli zikar, i canti ritmati dei Baye Fall, che all’interno della confraternita della Muridiyya rappresentano una sorta di corpo speciale. Applicano alla lettera il jebbellou, che vuol dire la sottomissione al proprio marabutto, la guida spirituale delle confraternite, abbandonando la materialità della vita moderna per la spiritualità della religione islamica, la condivisione e il lavoro. E sono esentati da alcuni doveri (come il digiuno durante il ramadan).
I Baye Fall sono immediatamente riconoscibili per via del look. Portano lunghe trecce rasta, in genere raccolte in un copricapo. Indossano tuniche patchwork coloratissime, cinturoni di cuoio tempestati di amuleti, e appese al collo hanno sempre le immagini di Cheikh Ahmadou Bamba e del loro marabutto. A volte brandiscono bastoni (sono gli imponenti cerimonieri della confraternita, responsabile dell’ordine per le strade) e bacinelle di legno (usate per raccogliere le offerte). Suonare non è permesso a Touba, ma gli zikar dei Baye Fall non sono musica, sono preghiere.
Un calvinista africano
La Muridiyya è la confraternita sufi più popolare in Senegal e ha impresso all’islam locale quel carattere mistico, aperto e pacifista che riempie di meraviglia chiunque vi si accosti. In Senegal ci sono altre confraternite: la Tijaniyya, la Qadiriyya (che è la più diffusa nei Paesi dell’Africa occidentale, ma in Senegal è minoritaria), la Layenne (in realtà, più che una vera e propria confraternita rappresenta una religione sincretica legata all’etnia lebou) e l’Hamalliyya. La Muridiyya però è l’unica autoctona e la sua storia si intreccia con la resistenza locale al colonialismo e lo sviluppo della coltura dell’arachide.
Di Cheikh Amadou Bamba (chiamato anche Serigne Touba, ossia “sceicco di Touba”, e Khadim Rasul, “servo del messaggero”) ci resta una sola immagine, in posa ieratica e vestito di bianco, visibile, oltre che al collo dei Baye Fall, anche in quasi ogni taxi, bottega e casa senegalese. Creò la confraternita nel 1883 e quattro anni dopo fondò Touba. Il perno del suo insegnamento si ritrova in una massima che gli è valsa il titolo di calvinista africano (perché noi europei non resistiamo alla tentazione di rubricare quello che ci sfugge pescando nelle nostre categorie): «Prega come se dovessi morire domani, lavora come se non dovessi morire mai».
L’impero delle arachidi
«Il lavoro era essenzialmente quello dei campi, e sarebbe diventato poi, in particolare, la coltivazione dell’arachide», mi spiega Madou, che è anche uno studente appassionato di storia. «Proprio questa disponibilità di manodopera avrebbe permesso alla produzione locale della leguminosa di decollare, all’interno di un accordo economico-religioso che i capi murid avrebbero siglato con i colonizzatori francesi prima e con il governo senegalese poi».
La storia è nota: sotto Léopold Sédar Senghor, il primo presidente del Senegal indipendente, tra confraternite e stato si era prodotta infatti una convergenza di interessi legata alla coltura e all’esportazione delle arachidi. I capi religiosi potevano contare su esenzioni e prestiti agevolati per l’acquisto di sementi e concimi, e ricevevano gratuitamente ettari ed ettari di terreno dove, in assenza di vincoli, organizzavano le loro comunità agricolo-religiose denominate da’ra. I discepoli coltivavano gratis le arachidi. Lo stato le acquistava a prezzi stracciati e le esportava.
Benedetta dal marabutto
«Il carisma di Cheikh Amadou Bamba e il seguito che riscuoteva inquietavano moltissimo i francesi, che non potevano credere alla spiritualità di questo programma di vita e fede, e ritenevano dunque che il fervore religioso celasse progetti insurrezionali. Per questo tentarono di ucciderlo in tutti i modi e lo esiliarono nelle zone allora più impervie del continente, in Gabon, in Congo e in Mauritania – continua Madou, che è anche un murid devoto –. Lui però non cadeva, la sua popolarità continuava a crescere e alla fine ottenne l’autorizzazione a costruire la moschea». Era il 1925. I lavori sarebbero stati ultimati nel 1963 dai suoi eredi.
Serigne Touba morì a Diourbel nel 1927 ed è sepolto all’interno della moschea. Altri suoi discendenti e discepoli sono seppelliti invece nel vicino cimitero, anche questo un luogo di preghiera e pellegrinaggio.
Madou alterna le sue spiegazioni a momenti di raccoglimento. Veniamo informati che c’è la possibilità di avere udienza presso un marabutto molto stimato. Entriamo in un edificio lineare e veniamo fatti accomodare in una grande sala. Saremo almeno in duecento tra uomini e donne, seduti sui tappeti e senza scarpe. Il marabutto parla e benedice uno per uno tutti i presenti. Anche la sottoscritta. Non sono musulmana ma crediamo nello stesso Dio, e se sono arrivata sin lì è perché Cheikh Ahmadou Bamba lo ha permesso.
La legge del califfo
Vicino alla Grande Moschea c’è anche il complesso universitario e la grande, celebre biblioteca che ospita le opere del fondatore. Si dice siano sette tonnellate di libri. Negli anni la Città Santa è stata al centro di un vero e proprio boom demografico. Se in prossimità della Grande Moschea vive ancora un numero limitato di persone (ventimila circa), l’area ne ha richiamate complessivamente quasi un milione. Effetto della fede, ma anche dello status relativamente indipendente che si gode qui. La terra viene attribuita dalle autorità religiose, contrariamente alle altre regioni dove è possibile acquistarla. Il proprietario è il califfo discendente del fondatore. L’acqua è gratuita e gli abitanti non devono pagare tasse, sono tenuti solo a versare un tributo, la decima.
Pur essendoci formalmente una postazione di polizia, a occuparsi della sicurezza a Touba sono i talibés, termine che designa in generale gli studenti delle scuole coraniche ma che si usa in particolare per indicare chi ha scelto di condurre una vita di preghiera e di lavoro sotto la guida del Serigne. Le scuole sono esclusivamente coraniche e l’insegnamento è in arabo e wolof. Le succursali delle grandi banche occidentali non hanno diritto di stare nei pressi della grande moschea.
Si tratta insomma di una sorta di città-stato nello stato, con cui la politica sta bene attenta a non entrare in conflitto. Il contrasto pacifico tra lo spirito laico e liberale di Dakar e la religiosità di Touba a prima vista incarna alla perfezione il pluralismo e senegalese.
Influenza enorme
Touba accoglie tutti. Ha regole molto rigide, ma non le impone. Proprio per questo Touba, pur tra molte polemiche, rappresenta un argine alla diffusione del terrorismo nel Sahel e la sua grande influenza può spiegare, almeno in parte, come mai il Senegal stia resistendo meglio di altri territori. D’altra parte la città e in generale il sistema delle confraternite ha condizionato la storia politica del Senegal. La parola che meglio di ogni altra rivela questa stretta influenza è ndigel: in wolof definisce l’indicazione di voto data dai marabutti ai loro seguaci. Oggi formalmente questa prassi non esiste più, ma l’orientamento esplicito o velato dei capi religiosi, in particolare di quelli della Muridiyya, continua a giocare un ruolo importantissimo a ogni scadenza elettorale. Lo sanno i candidati. Lo sanno gli elettori.
Quando finiamo la nostra visita, il sole sta per tramontare e la moschea si è già illuminata. Ci fermiamo per una sosta. Non ci sono bagni pubblici. Non ci sono bar. Madou spiega a una signora da dove veniamo e chiede se può farci entrare a casa sua. Lei ci apre le porte e insiste affinché noi si resti lì a mangiare. Anzi, per la verità, porta un piatto pieno di ceeb (riso) senza curarsi troppo della nostra volontà. Essendo stata a Touba ho fatto metà del cammino, mi dice. Nella vita ora posso andare sicura: se agirò seguendo il bene, la benedizione del marabutto mi proteggerà per sempre.
(Stefania Ragusa)
Questo articolo è uscito sul numero 6/2020 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop