Fantasia, fermezza, partecipazione. Sono gli elementi comuni ai movimenti civici e di protesta che stanno rivoluzionando la politica in Africa. Sfruttano la musica rap e internet per scuotere le coscienze e mobilitare le piazze e in vari Paesi sfidano il potere, denunciando la corruzione ed esigendo più democrazia e libertà
Nel poderoso volume Transnational trills in the Africana World, che racconta come arte, musica e nuove tecnologie stiano trasformano il continente, l’africanista Cheryl Sterling dedica un intero capitolo a Y’en a marre, il collettivo senegalese che nel 2012 ha democraticamente stoppato il tentativo di modificare la Costituzione messo in atto dall’allora presidente Abdoulaye Wade per restare aggrappato alla poltrona.
L’espressione francese y’en a marre ha un significato chiaro: non se ne può più. Era stata scelta l’anno prima da un gruppo di rapper (Fou Malade, Thiat, Kilefeu) e giornalisti (Fadel Barro, Aliou Sane, Denise Sow) per mobilitarsi contro i continui e prolungati blackout elettrici che paralizzavano il Paese. Utilizzando anche il potenziale comunicativo dei social network, in poco tempo il movimento ha aggregato una realtà composita e variegata: giovani e meno giovani, rappresentanti di ong e di associazioni dei lavoratori, artisti e capi religiosi… Dopo aver dissuaso Wade dai suoi propositi, ha continuato a vigilare sulla vita pubblica senegalese, senza farsi inglobare e neutralizzare dalle logiche di spartizione del potere. Per dare un’idea: a Fadel Barro, uno dei suoi coordinatori più noti, è stato più volte offerto un posto da ministro (anche dall’attuale presidente, Macky Sall). Lui ha sempre rifiutato.
Musica e politica
Nel suo libro, Sterling evidenzia la connessione tra musica, politica e cittadinanza che ha caratterizzato Y’en a marre dal suo esordio ma anche il suo essere fonte dichiarata di ispirazione per altri movimenti in altri Paesi africani: Le Balai Citoyen in Burkina Faso, per esempio, o Filimbi, nella Repubblica democratica del Congo.
Balai Citoyen nasce nel 2013, ancora per iniziativa di due musicisti: il reggaeman Sams’K Le Jah e il rapper Serge Bambara Smockey. Il movimento, che sceglie come simbolo un oggetto umile e trasversale, ossia la scopa di rafia presente in ogni casa africana (il balai), vuole spazzare via la corruzione e il suo intreccio con la gerontocrazia. E ce la fa. Attraverso un’impressionante mobilitazione popolare riesce a “convincere” Blaise Compaoré ad allontanarsi dal suo scranno, dopo 27 anni ininterrotti di presidenza.
Filimbi (“fischietto” in kiswahili) debutta ufficialmente il 15 marzo 2015 a Kinshasa, alla presenza di rappresentanti di Y’en a marre e del Balai Citoyen. Le idee del nuovo movimento vengono immediatamente diffuse in rete e tradotte in canzoni, anche se i cofondatori non sono artisti. Si tratta infatti di un banchiere (Floribert Anzuluni), un medico (Franck Otete) e un impiegato (Yangu Kiakwama Kia Kizi). La forza mediatica della musica però è molto chiara anche a loro. La conferenza stampa di presentazione ha un esito drammatico. Il governo fa intervenire l’esercito e i leader, accusati di terrorismo, vengono arrestati. Questo non servirà a stroncare il progetto. Sulla scena congolese, Filimbi è stato preceduto da un altro movimento: Lutte pour le Changement (Lucha). Costituito a Goma nel 2011 da un gruppo di studenti, attivissimo in rete, nel 2016 Amnesty lo ha premiato (insieme con Y’en a marre e Le Balai Citoyen) proprio per l’efficacia del suo impegno per il cambiamento. A questo gruppo apparteneva Luc Nkulula, attivista di 33 anni, figura di spicco del movimento, sempre in prima fila nelle manifestazioni di protesta contro la corruzione della politica: è morto bruciato in circostanze oscure, nella sua abitazione di Goma nella notte tra il 9 e il 10 giugno 2018.
Lotte in movimento
La mappa del movimentismo civico africano è in realtà più ampia. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata all’elenco dei partecipanti ai lavori dell’Université populaire de l’engagement citoyen (Upec) 2018. Upec è stato una sorta di vertice francofono transnazionale, tenutosi a Dakar. A organizzare l’evento e a diramare gli inviti, Y’en a marre. Nel suddetto elenco troviamo l’organizzazione togolese En aucun cas, nata nel 2017; mentre scriviamo, è in piena mobilitazione per scongiurare la riconferma di Faure Essozimna Gnassingbé, figlio del dittatore “storico” Eyadéma, al potere dal 1967 al 2005 – alla sua morte, il testimone passò appunto a Faure.
Troviamo poi il gruppo malgascio Wake Up, nato su Facebook nel 2013 per iniziativa di una decina di attivisti sdegnati dalla situazione politica e dalla corruzione. C’è poi Jeune & Fort del Camerun, fondato nel 2012 da due artisti e che punta moltissimo sul coinvolgimento concreto di giovani e giovanissimi. Si continua con Gt Jeunes (per esteso: “Gruppo di lavoro dei giovani per la governance e i diritti umani”) della Costa d’Avorio, Ras-le-bol del Congo, Sindumuja (che vuol dire “io non sono schiavo”) del Burundi, Iyana del Ciad. Ma c’è movimento (è il caso di dirlo) anche nelle altre aree del continente. In Zimbabwe, per esempio, le proteste del 2016 che hanno portato alle dimissioni di Robert Mugabe sono state sostenute da gruppi come ThisFlag e Tajamuka, con azioni ampiamente organizzate attraverso Twitter, Facebook e Whatsapp.
In Kenya c’è Jiactivate, che ha l’obiettivo dichiarato di «ampliare e unificare la voce dei giovani di tutto il Paese, in modo da incrementare la partecipazione giovanile alla governance». In Zambia si sente parlare di Tikambe…
Fuori dal palazzo
Queste forme di attivismo e partecipazione giovanile rappresentano una realtà popolare e in continuo divenire nell’Africa contemporanea. E hanno molti elementi comuni. In primo luogo l’intenzione pacifista (talvolta non riconosciuta dai governi) e il ricorrente avvio “artistico”, a conferma di come, per immaginare forme di lotta alternative, servano la creatività e la fantasia. Sempre troviamo però l’utilizzo delle piattaforme social e dei sistemi di messaggistica istantanea: questi attivisti sono figli del loro tempo. Non solo sanno usare la tecnologia e i nuovi media, ma si muovono con competenza tra i meandri della comunicazione digitale.
Dal punto di vista formale, tutti tendono a definirsi “movimenti civici” o “movimenti di cittadinanza”. E c’è un filo rosso di contenuti che unisce le varie richieste. Mario Giro, docente di Storia delle relazioni internazionali a Perugia, ne parla nel suo libro Global Africa: «Hanno numerose rivendicazioni: più democrazia e partecipazione, no ai presidenti a vita, no alla corruzione e alla repressione, sì all’unità africana e alla libera circolazione, no alla collaborazione anti-migrazioni con l’Europa, sì all’emancipazione della donna e alla difesa dell’ambiente, no al land grabbing e alle monocolture». Per quanto riguarda i riferimenti teorici, «nel loro pantheon ci sono Fanon, Lumumba o Sankara, ma non sono ideologizzati e non sposano partiti o personaggi politici».
Inoltre, come abbiamo visto a proposito di Fadel Barro, non fremono per entrare in politica. Preferiscono vigilare, organizzare la lotta, promuovere la coscienza civica. Anche i portavoce del Balai Citoyen, dopo avere vinto contro Compaoré, hanno fatto scelte simili. Avrebbero potuto entrare nel governo. Hanno preferito restarne fuori esercitando il famoso e troppo spesso frainteso ruolo di cani da guardia del potere. Essere watchdog non vuol dire, infatti, mettersi al servizio dei potenti e cominciare ad abbaiare non appena qualcuno insidi la loro quiete. Al contrario, significa essere pronti a stringere le mascelle sui garretti di chi tiene le fila, pigia i bottoni, ma tradisce il suo mandato.
(Stefania Ragusa)