“La mia storia, anzi la nostra storia, la racconteremo noi stessi”

di claudia
Paule Roberta Yao,

di Valentina GeraciCentro studi AMIStaDeS APS

Cambiare la narrazione della migrazione è possibile? DIMMI-Storie Multimediali Migranti è un ambizioso progetto che mira a promuovere una conoscenza più approfondita del fenomeno migratorio, partendo da un punto di vista imprescindibile: al centro ci sono i diari e i racconti in prima persona di chi lo ha vissuto sulla propria pelle.

Come raccontiamo l’Africa oggi? Come la migrazione? E quanto ci soffermiamo sulle storie delle singole persone? Si sa. In un’Italia sempre più multiculturale, la narrazione delle esperienze migratorie assume un’importanza cruciale per superare stereotipi e costruire una società più inclusiva.

È in questo contesto che circa dieci anni fa nasce DIMMI-Storie Multimediali Migranti, un ambizioso progetto che mira a promuovere una conoscenza più approfondita e un’esperienza diretta rispetto ai temi della migrazione, partendo dai diari e dai racconti in prima persona. Quest’anno, un ulteriore passo avanti è stato compiuto con la prima edizione dell’ Ithaca Diary Contest, un’iniziativa che coinvolge diversi paesi del Mediterraneo, tra cui Francia, Grecia, Giordania, Marocco e Tunisia.

Il concorso, che si svolge in italiano e in altre quattro lingue (arabo, francese, greco e inglese), si basa sull’utilizzo dell’autobiografia per potenziare la voce dei migranti. La prima edizione di questo concorso innovativo sta per giungere alla sua conclusione, con scadenza fissata al 30 aprile.

Attraverso i propri vissuti, i partecipanti creano nuovi immaginari e narrazioni collettive sui fenomeni migratori. Paule Roberta Yao, coordinatrice dell’Ithaca Diary Contest, ci incontra per approfondire ulteriormente questa iniziativa e il suo impatto sulla rappresentazione delle storie migranti.

Qual’è il ruolo delle donne e degli uomini migranti nella narrazione diretta delle loro esperienze personali o familiari oggi nei Paesi coinvolti dal concorso?

Ho partecipato ultimamente a un panel intitolato “I desaparecidos di ieri e di oggi: memorie condivise di dittature e naufragi” ed è da qui che voglio partire. Scelgo questo evento più recente per condividere una riflessione emersa: la doppia accezione della “desaparicion”.

Da un lato, questo fenomeno ha ovviamente a che fare con una dimensione prettamente fisica come ce lo ricorda una stima al ribasso indicando che ad oggi circa 27.000 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa. Questa cifra non tiene conto delle numerose tappe propedeutiche all’attraversamento delle frontiere di mare o terra che mietono vittime, veri e propri desaparecidos, cioè persone disperse di cui non si hanno notizie, di cui i familiari non possono fare il lutto e così accade nei boschi della rotta balcanica, nel deserto o nelle carceri libiche.

Ma c’è un altro livello di ‘desaparicion’ altrettanto significativo e simbolico: l’assenza deliberata di voce e rappresentanza nel dibattito pubblico. In effetti, questo relega sempre le donne e gli uomini migranti a oggetti della discussione senza mai considerare il loro sguardo e le loro narrazioni dirette come il cuore pulsante di un impianto informativo virtuoso, capace di creare un nuovo sistema di pensiero critico intorno ai fenomeni migratori. Purtroppo, la narrazione diretta all’insegna della complessità e del rispetto continua a rimanere piuttosto marginale, quando va bene. Vengono anche veicolate strumentalizzazioni pericolose per opportunismo politico.

In un paese in cui viene tuttora negata la cittadinanza a chi è nato qui da genitori “stranieri”, in cui si è dato ampio spazio al racconto egemonico dei “barconi”, vilipendendo l’assoluta dignità e legittimità di tutte le altre istanze migratorie, il racconto delle esperienze familiari e personali in prima persona alza l’asticella della dialettica su questi temi, ripartendo dalle persone migranti e dalla necessità impellente di modellare nuove forme di comunicazione ispirate alle loro storie di vita.

Da qui quindi l’impegno di promuovere una “contro narrazione” .

La narrazione semplificata che ha fortemente caratterizzato la restituzione mediatica della questione migratoria negli ultimi anni ha generalmente incasellato le persone in due categorie ben distinte, ossia di criminali o di vittime. Nella concezione volutamente fuorviante delle migrazioni come un avvenimento emergenziale e puntuale da arginare, questo racconto binario ha colpito le donne e gli uomini migranti ma ha anche sferrato un attacco feroce alla società civile e alle ONG che hanno agito nel rispetto dei trattati internazionali e dei principi basilari di solidarietà umana.

Per questo motivo, ritengo centrale nonché di vitale importanza la costruzione di una contronarrazione che superi la dicotomia imperante in tema di migrazioni. Per contronarrazione, intendiamo la responsabilità etica e civile di costruire un linguaggio condiviso in grado di rovesciare i codici di senso derivanti dall’indifferenza e/o dall’ostilità generata dalle mistificazioni, dalle semplificazioni che hanno a lungo minato ogni tentativo di dialogo funzionale e onesto.

In questo contesto, si evince l’importanza del progetto DiMMi di Storie Multimediali Migranti qui in Italia come portatore di un modello di buone pratiche attraverso la valorizzazione di un’alternativa concreta e dignitosa che risponda a forti esigenze di autorappresentazione da parte delle donne e degli uomini migranti e di ripristino di piattaforme collettive di ascolto attivo ed empatico per il resto della cittadinanza. Nell’ambito del progetto, questa contronarrazione si è materializzata nelle circa 500 storie di vita migranti conservate presso l’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano con cui la cittadinanza è venuta a contatto attraverso il meccanismo delle commissioni di lettura dei contributi autobiografici.



Premio Pieve 2019 con i finalisti del Concorso Diari Multimediali Migranti

L’autobiografia è utilizzata quindi per potenziare la voce delle persone migranti. Che tipo di esperienze hai incontrato durante la raccolta di queste storie autobiografiche?

Come dicevo il metodo autobiografico scaturisce da forti esigenze di autorappresentazione da parte delle persone migranti e qualunque sia il motivo che spinge una persona a condividere la propria storia, questa scelta consente a chi la compie di agire spazi politici di autodefinizione e autodeterminazione che convergono nella sfera pubblica.

La mia storia, anzi la nostra storia, la racconteremo noi stessi perché nessuno la sa meglio di noi.” Queste parole sono tratte dall’autobiografia di uno degli autori, Mamadou Diakité, e penso che riassumano perfettamente l’obiettivo del DiMMi e la potenza dell’autobiografia.

Del resto, ciò che viene meno nel dibattito pubblico odierno è spesso il diritto a selezionare cosa si vuol dire e cosa no, come lo si vuol fare e attraverso quale canale. Alla negazione di questa libertà nell’informazione di stampo mainstream, si contrappone proprio il contributo autobiografico avvalorato da un io narrante che utilizza il materiale grezzo della propria vita per raggiungere l’altro.

Si tratta di un strumento politico portentoso, rivoluzionario nella sua semplicità, ma capace di amplificare le voci delle persone migranti e dargli la credibilità e la visibilità necessarie per produrre un cambiamento incentrato sulla conoscenza reciproca e sull’incontro con l’Altro.

Dall’Italia ai diversi paesi del Mediterraneo: come il concorso Ithaca Diary Contest si inserisce nel panorama e come si intende preservare il patrimonio culturale plurale attraverso queste storie?

L’efficacia del modello DiMMi di Storie Migranti è stata ulteriormente confermata quest’anno con il lancio dello stesso concorso su scala internazionale durante l’ultimo Premio Pieve in sinergia con il progetto Europeo Ithaca Horizon 2020 Interconnecting Histories and Archives for Migrant Agency: Entangled Narratives Across Europe and the Mediterranean Region.

Ithaca Diary Contest opera con le stesse finalità di autorappresentazione ed empowerment, utilizzando la metodologia autobiografica. Come con DiMMi di Storie Migranti, il confronto diretto che nasce tra cittadini e storie di vita migranti, senza filtri intermedi, porta a incontri estremamente carichi dal punto di vista emotivo, informativo e umano.

Come per l’Italia, gli autori e le autrici si mettono a nudo in percorsi di testimonianze tra avversità, conquiste, gioie, lutti, riscatti arrivando dritti al cuore delle persone. Ed è proprio grazie a queste storie di prima mano che si creano spazi nuovi in cui chi riceve in dono una storia può sospendere il giudizio e decidere di spogliarsi delle certezze in cui paradossalmente preconcetti e stereotipi lo confinano.

DiMMi di Storie Migranti ha permesso la pubblicazione di sei antologie con tutte le storie finaliste, a cura della casa editrice Terre di Mezzo Dimmi – Diari Multimediali Migranti – Terre di mezzo mentre l’Ithaca Diary Contest vanta finora la raccolta di 24 storie. Puntiamo su questo lavoro certosino in cui i disegni, le immagini, le parole e le voci sono la linfa vitale da cui devono e possono nascere nuove relazioni. Se abbattere i pregiudizi e i discorsi d’odio sono il marchio distintivo di entrambe le iniziative, vi è anche un mandato informativo ben preciso per smontare lo stereotipo di matrice coloniale che vede ancora nella bianchezza un elemento fondante della società italiana e non riconosce l’apporto di altre soggettività culturali.

Come dice splendidamente Alba Marina Ospina Dominguez nella postfazione all’ultima antologia “Il Diritto di salvarsi”, la rivendicazione di culture e identità plurime e di processi di ibridazione ormai in atto da tempo è fondamentale per abbracciare la complessità del mondo in cui già viviamo. Le storie raccolte costituiscono una traccia viva del nostro presente e aggiungono valore comunitario attraverso i ritratti dei contesti economici, politici e sociali dei paesi di provenienza che vanno disegnando.

Quali sono le principali sfide incontrate nel raccogliere e preservare le storie di vita dei migranti?

All’interno dell’Ithaca Diary Contest, il lavoro culturale di avvicinamento al concetto di narrazioni autobiografiche a sostegno di un cambiamento di paradigma è stato particolarmente faticoso. Nel contesto interculturale e transnazionale in cui operiamo con paesi caratterizzati da vicende migratorie molto diverse fra di loro, abbiamo riscontrato inizialmente forme di diffidenza e mi sono state poste spesso domande quali : “cosa farete della mia storia?” oppure “io cosa ci guadagno?”.

Ad esempio, io in prima persona, ricordo di aver comprato l’antologia della precedente edizione del concorso DiMMi di Storie Migranti prima di condividere la mia storia alla quarta edizione. La gratificazione che nasce dalla condivisione, dal passaggio di consegna tra la dimensione individuale che tenta di incidere su quella collettiva nel modo più complesso e semplice al contempo richiede tempo per essere compresa, maturata e infine accettata.

Ti faccio anche un altro esempio. Mi sono recata ultimamente a Lesvos, in Grecia, per una missione di promozione del Contest e ho incontrato vari rappresentanti delle associazioni e delle ONG locali nella speranza che rilanciassero la nostra raccolta di storie. E non ho potuto fare a meno di pensare che mi ci sarebbero voluti 4 mesi e non i 4 giorni che avevo a disposizione per incentivare la partecipazione in quel territorio.

La vera posta in gioco è la capacità di creare relazioni di fiducia, facendo intravedere alle persone spazi sicuri in cui le loro storie andranno a stimolare percorsi di mutuo ascolto, aiuto, di cambiamento reciproco, di maggior consapevolezza (e decostruzione) dei propri privilegi dato che la raccolta di storie non è avulsa dalle dinamiche di (mancato) potere che caratterizzano il mondo in cui viviamo.

Molte sono le questioni etiche che sorgono spontanee se non si vuol far male alle persone e cadere nel tranello delle buone intenzioni, che si dimostrano spesso pessime : come tutelare chi teme per la propria incolumità, proprio per la natura della storia condivisa ? come fare in modo che le persone non si sentano usate e utilizzare queste storie come strumenti di potenziamento delle proprie risorse? come prendere decisioni collegiali e trasparenti intorno alle scelte editoriali e operative che costellano tali percorsi? come tutelare principi di orizzontalità e di circolarità dei ruoli con le persone migranti?

Mi sento di dire che questa è la bussola valoriale a cui cerchiamo di rimanere saldi nel percorrere questa strada.

In copertina: Paule Roberta Yao, coordinatrice dell’Ithaca Diary Contest

Condividi

Altre letture correlate: