di Claudia Volonterio
Ha ancora i capelli rossi la protagonista della nuova versione della Sirenetta della Disney uscita in Italia nei giorni scorsi. Ma, a ben guardare, una piccola rivoluzione è stata fatta. L’attrice afroamericana Halle Bailey che interpreta la principessa degli oceani ha potuto tenere i suoi locs. Niente stirature o parrucche: un potente messaggio a difesa della bellezza dei capelli naturali afro, che per secoli (e ancora oggi) sono stati oggetto di stigma.
Ha suscitato inizialmente delle polemiche la scelta del kolossal americano di far interpretare a un’attrice afroamericana il personaggio di Ariel, la famosa Sirenetta, nella nuova versione in liveaction (uscita in Italia in questi giorni). Allo stesso tempo, positiva era stata invece la reazione delle persone afrodiscendenti, con la pelle scura, che hanno ribadito la necessità, soprattutto per i più piccoli, di sentirsi rappresentati sullo schermo. Su Tiktok hanno spopolato per giorni migliaia di video girati da ragazze afroamericane o che riprendono bambine di colore che guardano il trailer del film e appaiono felici. Emblematica una delle frasi più pronunciate nei video ormai diventati virali: “Lei è come me!”
Allo stesso modo, non aver fatto indossare alla protagonista parrucche o non averle imposto stirature evidenzia un cambio di passo che lancia in tutto il mondo un messaggio importante contro il razzismo e la discriminazione dei capelli afro. Lo ha confermato l’attrice stessa, intervistata dalla rivista Ebony: “Era molto importante per me avere i miei capelli naturali in questo film. Sono davvero grata al regista, perché ha voluto mantenere i miei locs. Li porto da quando avevo 5 anni, quindi sono una parte enorme di quello che sono. Dobbiamo poter vedere noi stessi, dobbiamo poter vedere i nostri capelli su grandi schermi come questo, in modo da sapere che sono belli e più che accettabili”.
Una storia, quella dello stigma dei cosiddetti “Black hair” che ha radici lontane.
Il forte significato politico e identitario dei capelli afro si comprende oggi guardando alla storia. Durante la tratta degli schiavi, uno dei modi per spogliare le persone della loro identità e cultura era proprio quello di rasare forzatamente i capelli. Durante l’epoca coloniale, riporta Alfemminile, molte donne africane furono costrette a tagliare i propri capelli per non destare l’attenzione degli uomini o attivare la frustrazione delle donne bianche. Con il tempo, nelle culture occidentali ha fatto breccia una vera e propria stigmatizzazione dei capelli afro, che ha portato diverse donne nere a ricorrere a metodi per “normalizzare” la propria capigliatura con il modello occidentale e dominante, arrivando a percepire i propri capelli come “brutti” o disordinati, inglobando una visione negativa dei propri capelli naturali, che è parte di una cultura con tracce di colonialismo ancora irrisolte. Metodi che minano non solo il capello in sé, soggetto a trattamenti aggressivi, ma anche un simbolo di cultura e storia.
Per spiegare in particolare la situazione negli Stati Uniti, emblematica è un’affermazione di Holly J. Mitchell riportata dal giornale online Musa: «Per secoli i neri e le donne non hanno sfidato questi standard. Abbiamo stirato i capelli con il calore e con sostanze chimiche per soddisfare quegli standard eurocentrici. Per troppi anni ci sono stati troppi casi di dipendenti a cui è stata negata una promozione o che addirittura sono stati licenziati a causa del modo in cui hanno scelto di portare i capelli».
Poter vedere sugli schermi i capelli afro al naturale è parte di una battaglia per la rappresentazione e contro la discriminazione. Non sono solo capelli. A sostegno di questa liberazione nel 2019 in California è stato creato il celebre Crown Act, una forma di protezione legale contro lo stigma dei capelli afro nei luoghi di lavoro e nelle scuole.