Uno dei settori più colpiti dalle restrizioni imposte dalla pandemia è stato quello turistico, raggiungendo picchi allarmanti nei paesi dell’Africa australe, che negli ultimi anni avevano reso il turismo una voce chiave dell’economia nazionale. Il bando di questo settore ha pesato sia da un punto di vista economico, con il quasi totale azzeramento delle entrate, sia dal punto di vista ambientale, con il peggioramento del bracconaggio. Una drammatica crisi frutto anche, o soprattutto, delle azioni intraprese nel tentativo di arrestarla.
di Gianni Bauce
In questi ultimi due anni di pandemia, il settore turistico è stato indubbiamente il più penalizzato a causa delle restrizioni sugli spostamenti delle persone ed il conseguente bando del turismo. In particolare nel continente Africano, il bando del turismo ha avuto conseguenze allarmanti, che hanno toccato non soltanto il settore turistico, ma anche le sue innumerevoli ramificazioni, dall’economia dell’indotto alla conservazione della fauna e dell’ambiente.
Alcuni paesi Africani, in particolare quelli dell’Africa australe, durante gli ultimi 50 anni hanno saputo gestire in modo virtuoso il proprio patrimonio naturale, trasformandolo in una risorsa economica che per molti stati rappresenta una voce chiave dell’economia nazionale. In Zimbabwe, per esempio, il turismo è la terza più grande risorsa economica dopo l’agricoltura ed il settore minerario; una risorsa coltivata con impegno nella protezione del proprio patrimonio faunistico, fino a raggiungere il secondo posto tra i paesi nel continente più virtuosi in ambito di conservazione.
Il settore turistico nei paesi dell’Africa Australe, ed in particolare in Zimbabwe, si fonda principalmente su due colonne portanti: il turismo naturalistico o turismo fotografico, comunemente definito “safari” ed il turismo consuntivo, ovvero la caccia al trofeo.
La prima forma di turismo coinvolge un elevato numero di visitatori che portano un contributo economico procapite abbastanza moderato, ma che nell’insieme rappresenta un’enorme sorgente di valuta pregiata. La seconda riguarda invece un numero molto limitato di visitatori che però pagano corrispondenze molto elevate per i loro trofei; al valore pecuniario della caccia al trofeo si aggiunge l’immenso apporto ecologico dato dai concessionari delle aree di caccia, attraverso il mantenimento dell’equilibrio ecologico di immense aree naturali e della loro popolazione animale.
Entrambe le forme di turismo, consuntivo e non, vengono operate da operatori qualificati e licenziati dalle autorità Nazionali e rappresentano alcuni dei principali attori dell’industria turistica, ma non sono gli unici. Un fitto indotto creato dal turismo, garantisce la sopravvivenza di centinaia di migliaia di persone coinvolte in modi diversi nel turismo: dal personale direttamente impiegato nelle strutture a quello occasionale (come per esempio quello delle imprese di manutenzione degli impianti e delle attrezzature); dai fornitori di prodotti alimentari (in quest’ultima posizione si collocano la maggior parte delle comunità rurali adiacenti alle aree di conservazione od alle località turistiche) agli erogatori di servizi di trasporto, consulenza del lavoro, legali e chi più ne ha più ne metta; senza contare – soltanto per menzionarne alcuni – I fornitori di abbigliamento da lavoro e merchandising, gli importatori di autoveicoli, le scuole professionali o gli artigiani e gli artisti che creano le centinaia di souvenir irrinunciabili per un visitatore nel paese.
Accanto al settore economico del turismo, troviamo la conservazione della fauna e dell’ambiente, che con esso procede “mano nella mano”, per usare una frase altamente simbolica pronunciata nel 2018 dal Presidente dello Zimbabwe E. D. Mnangagwa. L’attrazione principale per qualsiasi visitatore dell’Africa australe, infatti, è indubbiamente la spettacolare fauna selvatica del continente: leoni, elefanti, bufali, rinoceronti, leopardi, giraffe, coccodrilli, ippopotami e centinaia di altre specie animali, spesso endemiche del continente Africano, inducono ogni anno milioni di persone ad affrontare viaggi lunghi e costosi per osservare una risorsa unica al mondo. Ecco che la protezione e la conservazione di questa risorsa (cioè la fauna selvatica e l’habitat in cui essa vive) generano turismo e con esso un enorme apporto di valuta pregiata.
Ma la relazione a doppio senso tra turismo e conservazione, rende quest’ultima estremamente dipendente dal turismo, il quale rappresenta la fonte principale (se non l’unica, in molti casi) per il suo sostentamento. In Zimbabwe, per esempio, la Parks And Wildelife Management Authority è l’autorità parastatale che controlla, gestisce e mantiene gli oltre 50.000 chilometri quadrati di aree protette del paese (circa il 13,1% dell’intera superficie nazionale). La fonte di introiti predominante (per non dire l’unica) di questa autorità è il turismo, che attraverso i canoni corrisposti dagli utenti per l’ingresso nei parchi e nelle riserve, l’utilizzo delle strutture ricettive, le licenze concesse agli operatori, le quote di caccia e molto altro, permette di finanziare l’operato di questo ente fondamentale.
Il bando del turismo ha determinato il quasi totale azzeramento delle entrate, riducendo drasticamente l’attività di questo importantissimo ente: niente turismo significa niente soldi per gli stipendi dei ranger (ai quali è affiata la protezione della fauna), per i carburanti (senza i quali non è possibile utilizzare i mezzi per dispiegare capillarmente i ranger ed effettuare un presidio efficiente), per le infrastrutture (che permettono la viabilità, le comunicazioni e motivano il personale) e per centinaia di altre voci di bilancio.
Parallelamente, la crisi economica derivante dal blocco del turismo, ha impoverito le comunità rurali, che per sopravvivere hanno intensificato le attività illegali di caccia e raccolta nelle aree protette: il bracconaggio, in particolare quello di sussistenza (più comprensibile di quello speculativo, ma assolutamente non tollerabile per via delle sue disastrose conseguenze collaterali), ha subito un’impennata senza precedenti.
Da un lato, quindi, si sono intensificati i reati contro il patrimonio ambientale e la pressione del bracconaggio è aumentata esponenzialmente, mentre dall’altro si è quasi azzerata la capacità operativa delle forze dell’ordine preposte a contrastare questi fenomeni e garantire la protezione delle risorse naturali: un cocktail assolutamente devastante. A tutto ciò si aggiunge un interminabile periodo di inattività – il quale ha ormai raggiunto i due anni consecutivi – che sta producendo un deterioramento delle strutture turistiche tale da risultare difficile da riparare nel futuro.
Ma quando affermiamo che la pandemia ha avuto gravi conseguenze sul settore turistico e sulla conservazione, commettiamo un madornale errore di principio: non è stata la pandemia a determinare questa drammatica crisi, bensì le azioni intraprese nel tentativo di arrestarla.
Quando nella seconda metà del 2021, l’allentamento delle misure restrittive aveva fatto ben sperare in una prossima ripresa del settore turistico in Africa australe, ecco che piomba come un macigno il “caso della variante Omicron”. In un laboratorio Sudafricano, una ricercatrice scopre una nuova variante del virus patogeno del COVID-19 e lo comunica alla comunità mondiale. La reazione è incredibile: invece di mostrare apprezzamento e gratitudine per la condivisione della scoperta, l’Europa blocca immediatamente tutti i voli provenienti dal Sudafarica e dai paesi confinanti e mette in atto una segregazione geopolitica che rasenta l’isterismo, dipingendo l’Africa australe come l’untrice dell’intero globo. Tutto ciò dopo un biennio di pandemia durante il quale l’Europa è stata messa in ginocchio dal virus che ha mietuto un numero impressionante di contagi e vittime, evidenziato una congenita disunione tra gli stati membri, che si sono azzuffati tra loro per accaparrarsi mascherine e vaccini, e trasformato in pochi mesi il Vecchio Continente nel vero untore del pianeta.
Dall’altro capo del mondo, invece, nell’emisfero australe, contrariamente ad ogni sprezzante previsione, la maggior parte degli stati Africani ha gestito la pandemia in modo efficace, con un numero di contagi e di decessi decisamente più basso, e non soltanto per ragioni climatiche, di densità della popolazione ed età media più favorevoli, ma anche grazie alle scelte effettuate dai vari Governi dell’Africa australe in materia di prevenzione e per fronteggiare la pandemia. Scelte discusse ed operate collettivamente all’interno della comunità del SADC (Southern Africa Development Community) ed adottate con mirabile sinergia ed uniformità di azione. Insomma un vero scacco di una quasi sconosciuta comunità coesa ad una pomposa comunità scricchiolante.
La misura della chiusura totale all’Africa australe ha sin da subito indotto molte perplessità ed una forte indignazione da parte dei paesi Africani colpiti da questa segregazione geopolitica. Quando poi, a fronte della palese diffusione in Europa (e nel resto del mondo) della variante Omicron già prima della sua scoperta, è risultato evidente che una misura di tali proporzioni (peraltro attuata senza nemmeno consultare le sedi diplomatiche locali) non poteva avere né efficacia, né ragioni logiche, anche il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterrez, si è pronunciato definendo, non a caso, questa chiusura “l’apartheid dei viaggi”.
Una parte del continete Africano, a dispetto delle difficoltà e delle innumerevoli crisi subite, ha costruito con tenacia e capacità un’industria turistica eccellente, caratterizzata da professionalità, standard elevati, destinazioni ed esperienze uniche al mondo. In questo processo, molti paesi Africani si sono distinti per il loro virtuosismo nella conservazione dell’ambiente, anche a costo di rinunciare ad allettanti offerte di sfruttamento di alcune delle loro aree protette da parte di potenti multinazionali senza scrupoli.
E’ una strana coincidenza, pertanto, notare come questo ostentato boicottaggio del turismo in Africa coincida con il silenzioso attuarsi di progetti inquietanti, come le trivellazioni petrolifere nell’area dell’Okavango in Botswana – una delle aree umide più straordinarie del pianeta e unica nel suo genere – da parte di una multinazionale Canadese.
I costi per mantenere la conservazione in Africa sono elevatissimi (nel solo Zimbabwe occorrono circa 20 milioni di dollari all’anno per gestire, proteggere e controllare la conservazione dei 50.000 chilometri quadrati di aree protette del paese) e, se vogliono continuare a mantenere le loro straordinarie risorse naturali, da qualche parte i Governi devono trovare i soldi per sostenere tali oneri, anche a costo di cedere a pressioni speculative alle quali hanno fino ad ora resistito.
Non è assurdo immaginare che, nei prossimi anni post-Covid, l’opinione pubblica europea si scaglierà contro alcuni paesi Africani, accusandoli di vendere elefanti agli zoo cinesi o svendere patrimoni ambientali a compagnie minerarie o petrolifere, dimenticandosi però che nel momento in cui queste paesi hanno avuto più bisogno del supporto dell’Europa, questa ha chiuso loro le porte in faccia.
In Africa Australe abbiamo costruito negli anni un’industria turistica capace di collocarsi ai primi posti nel mondo e in grado di rappresentare una delle prime voci di bilancio nell’economia di ogni singolo stato. Non vogliamo l’elemosina dell’Europa (come dipingono i peggiori luoghi comuni), vogliamo soltanto continuare a lavorare, a sostenere le nostre risorse naturali, a nutrire i nostri figli attraverso la più bella forma di commercio che si possa immaginare: vendere esperienze indimenticabili attraverso i nostri safari e trasformare i vostri sogni africani in realtà.
Vogliamo continuare a costruire in questo modo la nostra economia, autonomamente, ma senza essere boicottati.