La pandemia in Africa, tra allarmismo e realismo

di Marco Trovato

In Africa il distanziamento sociale è un privilegio. Viene spesso ripetuta questa frase, da più parti, proprio per sottolineare le difficoltà di un lockdown soprattutto nelle periferie delle metropoli africane. Slum e bidonville sovraffollati, condizioni igieniche precarie, dove la sicurezza sociale è un miraggio, dove i ragazzi di strada la fanno da padroni e dove le bande di giovani terrorizzano per poter portare a casa qualcosa da mangiare. Una frase un po’ retorica, forse, ma che in se cela il dramma dell’Africa, così come le sue potenzialità.

Lo abbiamo visto in questi giorni di emergenza coronavirus – occorre sottolineare che i numeri dei contagi non sono così drammatici, per ora, e ci auguriamo che rimangano così, anche se aumentano con percentuali preoccupanti –: si sono moltiplicate anche molte azioni virtuose, non solo la fantasia nel seguire le regole di igiene, ma anche l’intraprendenza di intere fasce di popolazione che se non si aiutano da sé, rimangono escluse da ogni possibile aiuto. Non solo. Anche aspetti negativi. In questa crisi emerge tutta la fragilità, non solo del sistema sanitario – inadeguato a prescindere dall’emergenza – ma di tutto un sistema di welfare incapace di soddisfare i bisogni della gente.

Solo qualche esempio. A Nairobi il fenomeno dei bambini di strada e delle bande giovanili è drammatico. Si ritiene che negli slum della capitale vivano più di 2 milioni di persone senza nulla. Il governo di costoro si è sempre disinteressato, se non mandare la polizia per ripulire le strade del centro cittadino da questi ragazzi “fastidiosi”. Con l’emergenza coronavirus, il governo ha deciso che questi ragazzi dovevano trovare una collocazione protetta. Ma dove? In quei centri che già si spendevano per questi ragazzi persi per le strade. Non si può dire che il governo sia diventato improvvisamente generoso, probabilmente pensa che devono essere tolti dalla strada perché potrebbero essere degli “infettatori seriali”. Ma tant’è. Un paradosso dell’emergenza coronavirus.

In Camerun le fazioni in lotta per l’indipendenza delle regioni anglofone hanno siglato un cessate il fuoco, proprio per l’emergenza. È vero anche che è stato violato più volte, ma hanno risposto con prontezza al forte messaggio del segretario generale dell’Onu, António Guterres, per un cessate il fuoco globale. Poi, come in Sudafrica, si pensa di costruire un muro al confine con lo Zimbabwe per “contenere il contagio”, quando, invece, la ragione è altra: impedire ai cittadini di quel Paese di emigrare in Sudafrica per cercare un lavoro che nel loro Paese non trovano. Insomma una guerra tra poveri.

In tantissimi Paesi si sono moltiplicate iniziative per fabbricare mascherine, distribuire sapone, creare fontanelle nelle strade per lavarsi le mani, sensibilizzare la popolazione alle buone pratiche di igiene, distribuzione di kit alimentari, trovare soluzioni innovative per costruire respiratori polmonari, come è accaduto in Kenya, dove due giovani della città di Thika usando pezzi di auto ne hanno costruito uno.

Da molti parti, inoltre, si continua a ripetere che l’Africa deve trovare nella crisi attuale la sua via di riscatto. E poi ci sono gli allarmi delle organizzazioni internazionali, Oms, Banca mondiale, Fondo monetario, che raccontano un’altra Africa. Un continente sull’orlo del baratro, basta aspettare qualche mese e la catastrofe si abbatterà su molti Paesi, con numeri di morti e contagi spaventosi. Saranno veri questi allarmi? Non lo sappiamo.

Ma accanto a queste previsioni catastrofiche si affiancano anche appelli a fare in fretta. Ma come? Pensano davvero queste istituzioni che in pochi mesi – se sono vere le loro previsioni – l’Africa, o una parte di essa, sarà in grado di mettere mano ai sistemi sanitari per affrontare una tale catastrofe? Intanto da una parte le istituzioni internazionali concedono la cancellazione del debito così che gli Stati possano usare quei miliardi proprio per fronteggiare la pandemia e poi mandano soldi a pioggia, creando altro debito. Il re del Marocco, Muhammad VI, cerca di avviare una concertazione con altri Stati dell’Africa occidentale, e più in generale di tutto il continente, per affrontare insieme la pandemia e le conseguenze che avrà sull’economia – il continente è entrato nella prima recessione dell’ultimo quarto di secolo –; i contenuti del suo appello, tuttavia, sono vaghi. Poi c’è il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, che ha chiesto di sbloccare 150 miliardi di dollari, oltre a sospendere il pagamento degli interessi sul debito. Tutte azioni che vanno nella direzione giusta.

Intanto, il continente deve affrontare l’emergenza sociale. Non si può chiedere il lockdown a persone che hanno nella giornata l’unica prospettiva di vita, che riescono a portare a casa il cibo per la famiglia grazie ai loro lavori informali, che oggi sono banditi. La carenza alimentare potrebbe, questa sì, diventare drammatica. Già in Sudafrica gli atti vandalici e gli assalti ai centri commerciali e le proteste cominciano a diventare frequenti. L’unica ragione di questi atti è la fame. Molti abitanti delle township hanno perduto, dalla sera alla mattina, il loro lavoro. E ciò accade in un Paese dove il 20 per cento delle famiglie, in tempi normali, ha un accesso insufficiente al cibo. Sono dati ufficiali del governo.

Più che lanciare allarmi su probabili o non probabili catastrofi, bisognerebbe guardare a cosa sta accadendo adesso. Chi ha fame ha fame ora. Dare conforto immediato alle popolazioni e ripensare il futuro dell’Africa. Non limitarsi a dire che il “continente deve svegliarsi”. Tutti devono fare la loro parte. Gli intellettuali africani hanno firmato un documento – The Time to act now indirizzato ai leader del continente in cui si augurano, tra l’altro, che la crisi della pandemia diventi un’occasione.

«La sfida per l’Africa – si legge nel documento – non è altro che il ripristino della sua libertà intellettuale e una capacità di creare: senza, non è concepibile alcuna sovranità. È rompere con l’esternalizzazione delle nostre prerogative sovrane, riconnettersi con le realtà locali, rompere con un’imitazione sterile, adattare scienza, tecnologia e ricerca al nostro contesto, elaborare istituzioni sulla base delle nostre specificità e delle nostre risorse, adottare un quadro di governance inclusivo e uno sviluppo endogeno, per creare valore in Africa al fine di ridurre la nostra dipendenza fatta a sistema». Tra i firmatari anche il Nobel nigeriano per la letteratura, Wole Soynka. Scrittori e accademici africani chiedono, in sostanza, una “seconda indipendenza”. Gli intellettuali fanno il loro mestiere. Ora i politici africani devono essere all’altezza della sfida che li attende. A guidare una rinascita del continente potrebbe essere un altro premio Nobel, questa volta per la pace, il premier etiope Abiy Ahmed. Quel premio è proprio un incoraggiamento ad andare in questa direzione.

(Angelo Ravasi)

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