Film che gettano uno sguardo critico sulle “primavere” arabe, tra cui dieci prime mondiali. L’edizione di quest’anno dell’Ismailia Film Festival, che si è tenuta a inizio giugno sul Canale di Suez, è stata più movimentata del previsto. La rassegna – l’unica, tra Nord Africa e Medio Oriente, che dal ’98 si dedica esclusivamente al documentario – è andata in scena nei giorni più caldi dei sit-in di artisti, scrittori e registi, al Cairo e Alessandria, contro il ministro della Cultura Alaa Abdul Aziz e la sua impronta islamista sul settore. Un preludio all’ondata di rivolta nel Paese che ha poi destituito il presidente Morsi.
A Ismailia, la protesta ha fatto da sottofondo al tentativo di creare una sinergia pan-araba nel genere documentario, che sta vivendo nell’area un’autentica rinascita dopo gli sconvolgimenti politici e sociali, poiché il pubblico cerca nuove letture del presente. Così, se il primo premio è andato ad A World Not Ours del libanese Mahdi Fleifel, i protagonisti sono stati i lavori sul nuovo Egitto. Come Electro Chaabi della franco-tunisina Hind Meddeb, sui giovani degli slum del Cairo che danzano e sognano al ritmo di un genere musicale inventato da loro. Come Tamantashar yom (18 giorni), firmato da un collettivo di registi egiziani sulle storie di gente comune travolta dagli eventi di piazza Tahrir nel 2011. O come il film ancora in produzione I Saw Harassment di Samaher el Kady, che indaga i movimenti femminili nati nel Paese per denunciare le molestie sessuali.
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Ma la vera novità del festival è stata la piattaforma di co-produzione: 12 progetti di film invitati a presentarsi a producer, distributori e televisioni da tutto il mondo arabo, dal Doha Film Institute all’egiziano Studio Masr. Mentre tre produttori da Egitto, Tunisia e Marocco hanno lanciato ufficialmente Arab Film Market: un’associazione che rafforzerà sul mercato internazionale le pellicole arabe indipendenti.
