È inevitabile associare il nome di questo staterello alla parola genocidio. Soprattutto a un quarto di secolo da quegli eventi. Da allora, però, il Ruanda è rinato, ed è oggi un modello per molti aspetti. Tranne che per la libertà di parola…
Settembre 1994. Due mesi dopo la fine del genocidio e l’entrata del Fronte patriottico ruandese (Fpr) in Kigali, la capitale è solo tristezza e desolazione. Le finestre degli uffici dei ministeri sono quasi tutte in frantumi e l’elettricità non è ancora stata ripristinata. Si odono ancora spari a qualsiasi ora del giorno e della notte. I cani, divenuti pericolosi essendosi nutriti di carne umana, vengono abbattuti. Alle porte della città, i militari, in cerca di armi, controllano i veicoli. Sono infatti ancora attivi dei gruppi armati, gli abacengenzi (infiltrati). Nei quartieri aleggia l’odore dei cadaveri in decomposizione, che talvolta promana dalle latrine in cui sono stati gettati. Nella regione di Gitarama, in un ruscello giacciono corpi in putrefazione, anche quello di un bambino. Sulle colline sovrastanti i fiordi di Kibuye, sul Lago Kivu, il fetore dei corpi abbandonati da molti mesi, irriconoscibili, prende alla gola.
Kigali irriconoscibile
Dopo l’olocausto – che secondo il bilancio del governo fece 1.074.017 vittime, di cui 934.218 identificate – c’era tutto un Paese da ricostruire. Poco oltre la frontiera, nei campi profughi erano ammucchiate più di due milioni di persone, trascinate in Congo dal governo e dall’esercito genocidari. E rimaneva da fare il più difficile: guarire le piaghe invisibili del dolore della vedova e dell’orfano.
Venticinque anni dopo, Kigali è trasfigurata. Quella che fu una città calma e provinciale è ora costellata di grattacieli e di centri commerciali. Gli hotel a cinque stelle si sono moltiplicati. In centro, l’ex quartiere generale del “governo interino” mandante del genocidio, l’albergo Les Diplomates, ha fatto posto al Serena, un hotel extralusso. A poca distanza, i turisti nuotano nella piscina dell’Hotel des Milles Collines, ignari che nel 1994 essa serviva da cisterna ai profughi assediati dalle milizie interahamwe.
La città, dominata dal “bunker” del nuovo ministero della Difesa, è passata dai 300.000 abitanti del 1994 agli attuali 745.000. Il fenomeno è in parte dovuto all’esodo rurale e al rimpatrio di diverse generazioni di rifugiati. Ma una simile proliferazione di alloggi, uffici, industrie è stata resa possibile dagli espropri. Gli abitanti delle casupole di assi e lamiere sono stati ricollocati in periferia. E anche il paesaggio umano è cambiato. Non si parla più di Hutu, di Tutsi e di Twa, categorie un tempo risultanti sulle carte d’identità, con l’effetto di facilitare grandemente il lavoro dei genocidari; oggi si parla di sopecya (sopravvissuti), dubai (rifugiati tutsi del Congo o del Burundi) o tingi-tingi (rifugiati hutu rientrati dal Congo).
Pulizia, sicurezza, sviluppo
Kigali è oggi una delle città più pulite e sicure del continente. Non una cartaccia per terra. I sacchetti di plastica sono vietati ed effettivamente non ne se vedono in giro, né in città né sulle colline. Un esito che ha indotto Onu/Habitat a conferire a Kigali, già nel 2008, il titolo di “Migliore capitale africana” e che ha favorito la nascita di startup come Soft Packaging di Jean de Dieu Kagabo, una ditta di confezionamenti biodegradabili che dà lavoro a 81 persone nella zona economica speciale di Ndega, nella capitale. «Sembra di essere a Singapore», si lascia scappare un giornalista belga di nome Gérard.
Nella medesima città in cui machete e granate sparsero il terrore, non è raro incrociare, quando è ormai sceso il buio della notte, donne europee che fanno jogging. I mercati sono riforniti di ogni genere di prodotti, siano essi di importazione o dell’agricoltura locale.
Molti osservatori attribuiscono al presidente Paul Kagame il merito di avere dato stabilità a un Paese devastato. L’efficacia della lotta alla corruzione è riconosciuta a livello internazionale. I funzionari dello Stato sottoscrivono contratti di obiettivo, gli imihigo, e devono renderne conto regolarmente, pena il licenziamento.
Il Ruanda ha raggiunto nel 2015 quasi tutti gli Obiettivi di sviluppo del millennio. In dieci anni un milione di persone è uscito dalla povertà estrema e il Paese vanta un tasso di crescita economica annuo del 7,8%. Anche se la povertà non è di certo scomparsa. L’Associazione delle vedove del genocidio Agahozo (Avega) cerca di aiutare le donne costrette dal genocidio a improvvisarsi capifamiglia.
Oltre il 95% dei bambini frequentano la scuola primaria. La mortalità infantile è diminuita del 61% e i tre quarti dei ruandesi hanno accesso all’acqua potabile. In Parlamento, le donne occupano oltre il 55% dei seggi: un record mondiale. E il Ruanda è uno dei rari Paesi africani a disporre di un sistema di sicurezza sociale universale.
Energia e innovazione
L’obiettivo di una capacità di generazione elettrica di 563 MW nel 2020 non è a portata di mano. Il Paese si è comunque dotato di infrastrutture pionieristiche come le centrali alimentate dal metano del Lago Kivu. Sta ora lavorando all’energia geotermica. Sul Nyabarongo, un fiume che dà origine al Nilo Bianco, è stata inaugurata una centrale idroelettrica. Il traguardo è garantire l’accesso universale all’elettricità (eravamo al 34,5% a fine 2017) entro il 2025.
Il Ruanda, scelto da Microsoft nel 2006 come Paese-test, è all’avanguardia dell’Africa digitale e punta sulle nuove tecnologie per creare un ambiente favorevole agli investitori. Secondo la Banca Mondiale è il secondo Paese africano, dietro a Mauritius, più favorevole alle imprese. Anche la Volkswagen si è lasciata tentare: nel 2018 ha aperto una fabbrica di assemblaggio della capacità di 5000 vetture l’anno. Sforna Passat e Polo.
Intanto è nata una nuova generazione di imprenditori locali, che dispone anche di un Knowledge Laboratory – un incubatore – a Kigali. L’innovazione è in tutti i settori. Nel Sud-est del Paese la Ikirezi Natural Products di Nicholas Hitimana produce, a partire da 25 ettari di coltivazioni, oli essenziali di geranio, citronella ed eucalipto, utilizzati nell’industria profumiera ed esportati in Sudafrica e negli Stati Uniti. Sono colture che rendono tre o quattro volte più dei legumi. A Muhanga, a sud-ovest di Kigali, è stato costruito un “dronoporto”, allo scopo di trasportare con urgenza, via drone, sacche di sangue, farmaci e altri materiali sanitari nelle località più remote.
Dopo il Kigali Institute of Science and Technology, una cittadella universitaria pensata per le nuove tecnologie, ha visto la luce la Kigali Innovation City, che si prefigge di formare 5000 ingegneri l’anno. Il Paese, divenuto sinonimo d’eccellenza delle colture di tè e caffè e dei fiori recisi, cerca anche di uscire dall’isolamento geografico. Nel gennaio 2018, Kagame e il presidente tanzaniano John Magufuli hanno siglato un accordo per la costruzione di una linea ferroviaria di 400 chilometri che darà al Ruanda uno sbocco sull’Oceano Indiano: il porto di Dar es Salaam.
Il mondo rurale è diverso
Permangono tuttavia disparità considerevoli tra la capitale e le colline. La coalizione di ong European Network for Central Africa lamenta che, se nell’ultimo decennio la produzione e le rese agricole sono aumentate, i contadini però non sono stati sufficientemente consultati nel definire il Piano strategico per la trasformazione dell’agricoltura. Farlo, sostiene la rete di ong nel suo rapporto, è invece imperativo, dal momento che la malnutrizione colpisce, secondo la Fao, ancora quattro milioni di ruandesi. È stata anche lanciata – fa presente An Ansoms, specialista di sviluppo all’Università cattolica di Lovanio – una politica di sfruttamento delle aree acquitrinose, che ha dato accesso a terre coltivabili a persone che ne erano escluse, tra cui giovani e rifugiati. Ma succede che rimangano tagliati fuori dei contadini poveri.
In ogni caso, percorrendo le strade si vede il progresso avanzare, per esempio osservando i picchetti gialli che segnalano il cavo per la connessione 4G. E la febbre del mattone sale anche in città di provincia come Kibuye e Gisenyi.
E i diritti? E l’opposizione politica?
Talvolta si ha però il sentimento che il Ruanda sia un isolotto in una regione tempestosa. Avvicinandosi alla foresta di Nyungwe si incrociano pattuglie militari – un sergente e tre soldati ciascuna – ogni due chilometri. Presso la vicina frontiera con il Burundi le tensioni sono vive. Nei dintorni di Butare, e tra Giseny e Kigali, ci sono campi di rifugiati congolesi. La centrale elettrica a metano KivuWatt, presso Kibuye, è una zona militarizzata. La vigilanza è d’obbligo. C’è un video che gira su Whatsapp e che mostra Kagame, in uniforme, assistere con altri ufficiali a esercitazioni d’artiglieria: come a rammentare al popolo, e ai vicini, che il Ruanda è pronto a far fronte a ogni minaccia.
La medaglia ha il suo rovescio. Amnesty International critica le violazioni dei diritti umani e le limitazioni alla libertà di stampa. In effetti per gli oppositori la vita è dura. Sono stati assassinati molti di loro, tra cui l’ex ministro dell’Interno, Seth Sendashonga, a Nairobi nel 1998. Nel gennaio 2014 è stata la volta dell’ex responsabile dei servizi d’informazione ruandesi, Patrick Karegeya, trovato morto in Sudafrica. Per molti ruandesi, tanto hutu come tutsi, è gran tempo che Kagame e l’Fpr aprano i giochi politici e concedano libertà di parola. Ma ben pochi osano esprimere apertamente questo pensiero… Paura della repressione; e paura che la parola liberata dia libero corso ai demoni del passato.
(testo di François Misser – foto di Bruno Zanzottera/Parallelozero e Marco Trovato)