Il dodo era un uccello simile ad un grosso piccione che viveva esclusivamente nell’isola di Mauritius. Estinto ormai da più di trecento anni, dei recenti studi hanno esaminato con degli scanner laser le sue ossa, restituendo dignità a questo animale da sempre bistrattato nell’immaginario popolare come goffo e sempliciotto. Il dodo aveva invece un’intelligenza sviluppata nella media dei suoi simili e la sua corporatura robusta gli permetteva di muoversi velocemente, compensando la sua incapacità di volare
di Mario Ghirardi
Non era così stupido come lo si è sempre dipinto. Il bistrattato dodo era un uccello simile ad un grosso piccione che viveva esclusivamente nell’isola di Mauritius, al largo delle coste africane dell’Oceano Indiano, il cui ultimo esemplare fu avvistato 360 anni fa, esattamente nel 1662, diventando presto nell’immaginario popolare l’uno per il tutto, ovvero il simbolo principe degli animali scomparsi dalla faccia della terra. A restituirgli una ‘dignità’ sono oggi le più recenti ricerche in campo scientifico che senza pregiudizi, né tentativi di assoluzione a priori hanno esaminato con scanner laser le sue ossa ricostruendone modelli in 3D e realizzato TAC della sua scatola cranica.
Scientificamente parlando il dodo si chiama ‘Raphus cucullatus’ ed appartiene alla famiglia dei Rafidi, che comprendeva un altro paio di specie diffuse sulle isole minori di quell’arcipelago estintesi presto come lui e di cui si hanno ben scarne notizie. Il suo aspetto poteva avere analogie, oltre che con il piccione, anche con un goffo e piccolo tacchino. In origine forse alto meno di 80 centimetri, lungo 35 e del peso di una decina di chili, raggiunse nello sviluppo della specie un metro di altezza, mezzo metro di lunghezza e un peso talvolta vicino ai 30 chili.
Qualche studioso parla di una sua migrazione dall’Asia meridionale a Mauritius, quando ancora la specie era in grado di volare, ma sono supposizioni o poco più. Il dato certo è che gli unici esemplari conosciuti sono stati visti sull’isola dai colonizzatori portoghesi tra XVI e XVII secolo e i pochi scheletri, conservatisi sino ad oggi in pezzi sparsi qua e là nei musei di scienze naturali di tutto il mondo, ci permettono di ricostruire l’immagine di un pennuto goffo, ma possente, il cui lungo collo terminava con una grossa testa glabra e un grande e affusolato becco la cui punta era ricurva e molto accentuata, capace di aprirsi sino agli occhi segnati da una gialla pupilla. Il suo corpo era ricoperto da piume che andavano dal grigio- marrone al bianco, colore che invece sempre contraddistingueva la coda dalle penne timoniere pochissimo sviluppate. Altrettanto corte erano le ali, assai gracili con le penne remiganti tanto ridotte da denotare da determinare la sua assoluta incapacità di volare.
In compenso il dodo aveva le ossa del bacino molto robuste, sostenute da massicce zampe di color giallo simili a quelle dei gallinacei, che lo rendevano capace di muoversi velocemente al suolo. L’olfatto si adeguò di conseguenza: il dodo infatti sviluppò bulbi olfattivi cerebrali ben maggiori di quanto solitamente possiedano altri uccelli, che hanno maggiormente sviluppato piuttosto il senso della vista, utile ad individuare dall’alto le loro prede. L’uccello adulto rinnovava il piumaggio in primavera e raggiungeva la maturità sessuale piena dopo alcuni anni.
La femmina del dodo deponeva un solo uovo alla volta che si schiudeva durante il mese di agosto. Il pulcino raggiungeva rapidamente la dimensione degli adulti e ciò gli offriva maggiori possibilità di resistere ai cicloni che nel loro infuriare spazzano la foresta e fanno scarseggiare il loro cibo costituito da insetti, foglie, frutti e semi individuati e poi raccolti anche in profondità nel terreno, grazie allo sviluppato olfatto ed alle robuste zampe unghiate. Il loro becco munito di uncino terminale poteva forse servire anche a spezzare frutti molto grandi e resistenti come le noci da cocco. In particolare si pensa che si cibasse dei semi dell’albero detto in francese ‘tambalacoque’, endemico come lui dell’arcipelago delle Mauritius. Addirittura si è ipotizzato che i semi di quest’albero germogliassero quasi soltanto dopo essere stati mangiati dall’uccello ed espulsi con le sue feci dopo aver percorso tutto l’apparato digestivo. Tanto che anche l’albero si sarebbe scarsamente riprodotto dopo la scomparsa del dodo. Accumulava riserve di grasso da spendere nella stagione secca.
Le descrizioni lasciate dai colonizzatori coincidono con quanto ci rivela oggi la scienza. Quando sbarcarono a Mauritius per la prima volta a fine ‘500, i portoghesi ne contarono a migliaia sulle spiagge e nella foresta e li poterono avvicinare subito senza problemi. Il dodo non era infatti un uccello timoroso perché era sempre stato privo di nemici naturali e predatori. La presenza dell’uomo ne segnò l’estinzione però già un secolo dopo soprattutto perché con l’uomo sbarcarono anche ratti, cani e maiali che lo combatterono e ne mangiarono le uova con estrema facilità prelevandole dai nidi posti a terra, senza che l’uccello sapesse opporre alcuna resistenza o modifica nelle sue abitudini. Di pari passo all’estinzione contribuì anche la deforestazione e la progressiva alterazione dell’ecosistema, con le stesse implicazioni in miniatura di quanto sta dimostrando oggi la diffusione del coronavirus. Ovvero che a scatenare fenomeni irreversibili come le pandemie certamente contribuisce l’alterazione degli equilibri tra ambiente e fauna endemica e quella degli animali che gli uomini impongono assieme alla loro presenza, alterando i cicli vitali naturali.
La caccia che eventualmente l’uomo gli diede non influì più di tanto nell’estinzione, pur se gli animali si lasciavano catturare con estrema facilità. Piuttosto potè influire la raccolta delle loro uova lasciate allo scoperto nei nidi al suolo. La carne del dodo non era infatti gradita per il suo sapore giudicato disgustoso, tanto che gli appellativi che lo accompagnarono si riferivano spesso anche a questo aspetto: in olandese il dodo veniva chiamato ‘walgvogel’, ovvero ‘uccello nauseante’.
La dimensione del cervello era proporzionata alla dimensione totale del corpo ed era analoga a quella del piccione, alla cui famiglia dei ‘Columbidae’ si rifaceva in ultima istanza. Ed è proprio su questo che i più recenti studi scientifici hanno insistito per restituire oggettività alla tradizione che vuole il dodo tanto sempliciotto da meritarsi l’appellativo portoghese di ‘doudo’, da cui discende lo stesso suo nome. In realtà possedeva le stesse sensazioni cognitive almeno del piccione, che è stato dimostrato aver capacità di autoriconoscimento simili a quelle di un bimbo di tre anni e anche la intelligenza sufficiente ad imparare l’uso basico di uno screen touch.
Tuttavia la tradizione è dura a morire e il dodo continua in letteratura a rappresentare l’animale sciocco, come ad esempio appariva nel primo cartoon della serie ‘L’era glaciale’ durante la disputa per l’ultima anguria. La prima notorietà gli fu regalata da un pittore fiammingo, l’olandese Roelandt Savery, a cavallo tra ‘500 e ‘600, quando qualche esemplare fu portato in Europa dai colonizzatori e il pittore lo ritrasse in svariate occasioni, spesso aggiungendovi tocchi di fantasia. Pare che a questi dipinti si sia rifatto nell’800 lo scrittore Lewis Carroll che lo fece comparire nel suo popolare romanzo ‘Alice nel Paese delle meraviglie’, anche con autoironia. Infatti il vero nome di Carroll era Dogson, il quale, affetto com’era da balbuzie, sillabava quel nome sino a storpiarlo in do-do-Dogson. Il romanziere Mark Twain lo presentò ne ‘Il diario di Adamo ed Eva’ e il poeta Hilaire Belloc in ‘The bad child’s book of beasts’, senza contare la citazione musicale fatta dai Genesis e la presenza tra Muppets e Pokemon.
Mauritius ne ha fatto il suo simbolo immancabile accanto al ritratto della regina Elisabetta su monete e francobolli. E’ anche il protagonista di tutta l’oggettistica di cattivo gusto che deborda dalle bancarelle di ogni mercato e negozio locale di souvenir. In inglese esistono le espressioni ‘as dead as the dodo’ (morto come il dodo, che in italiano potrebbe suonare come ‘morto e sepolto’) e ‘gone the way of the dodo’ (andato sulla strada del dodo, ovvero in italiano ‘fuori tempo, anacronistico’). Insomma estinto sì, ma dignitosamente lasciando ai posteri un caro ricordo.
(Mario Ghirardi)