La Tunisia è in rivolta. Da più di una settimana dall’inizio degli scontri, la situazione non pare placarsi. Sul terreno è rimasto un morto e sono decine i feriti. La polizia sta usando la mano durissima contro i manifestanti. A sette anni dalla Rivoluzione dei gelsomini, il Paese sembra risprofondato nell’instabilità. Ma è davvero così? «La risposta è semplice quanto disarmante – spiega Stefano Torelli in uno studio realizzato per l’Ispi (il centro di ricerca milanese) -: oggi è peggio del 2011. Non a livello di contesto, dal momento che è innegabile che la Tunisia sia oggi un paese migliore rispetto al 2011 sotto molti punti di vista. La nuova Costituzione, l’apertura del panorama politico a partiti che prima erano messi al bando, lo svolgimento di elezioni parlamentari e presidenziali che hanno permesso anche una relativa alternanza di potere, sono tutti elementi che fanno del paese se non altro una democrazia procedurale in nuce. Ciò che preoccupa, però, è la pressoché totale assenza di politiche per lo sviluppo e la ripresa del Paese».
Dopo la rivolta che nel 2011 ha portato alla caduta di Ben Ali, la Tunisia viveva di grandi aspettative. Soprattutto quella di un forte sviluppo economico, favorito dalla democrazia, che avrebbe portato la piccola nazione fuori dalle secche di un’economica stagnante. «Ma così non è stato – continua Torelli nel suo studio -. E non solo non lo è stato immediatamente, ma la percezione che si ha dalle strade di Tunisi è che, più si va avanti, e più la situazione rimane imbrigliata. E così, le istanze di uguaglianza sociale, miglioramento delle condizioni socio-economiche e attenzione verso le fasce più disagiate (gli abitanti delle aree periferiche, le migliaia di giovani senza un lavoro e di persone che sono state estromesse dal processo di transizione politica, pur avendo preso parte direttamente alle rivolte che nel 2011 portarono al cambiamento di sistema), vengono messe in secondo piano rispetto alle piccole lotte di potere interne agli schieramenti politici».
Con la caduta del dittatore, si sono ripresentati i vecchi vizi della classe politica locale: piccolo cabotaggio, corruzione, nepotismo. Anche la grande coalizione fra i laici di Nidaa Tounes e i religiosi di Ennhada ha profondamente deluso e non ha portato a un reale cambiamento sul campo. «Ecco perché le rivolte di oggi sono più pericolose di quelle del 2011 – csottolinea Torelli -: perché alla speranza e all’entusiasmo che comunque animavano quella stagione di cambiamento, si sono sostituite la disillusione e la rabbia per una parabola che non ha intrapreso la traiettoria sperata. Questi sentimenti si sono tramutati in impazienza, come riassunto emblematicamente dallo slogan di una delle campagne di protesta di questi giorni (Fech Nestannaou, “Cosa aspettiamo”). Le rivolte di oggi sono più preoccupanti di quelle di sette anni fa nella misura in cui denotano la percezione diffusa del fallimento della classe politica post-Ben Ali. Il significato delle manifestazioni di questi giorni (e di centinaia di altre manifestazioni che si sono susseguite negli scorsi mesi, pur senza meritare l’attenzione degli osservatori esterni) è che la ricetta proposta per il post-regime non è quella giusta. Dunque, che neanche un sistema non autoritario è in grado di assicurare benessere ai cittadini».
A differenza del 2011, adesso non sembrano esservi alternative credibili. E il rischio è quello di un ritorno a usanze autoritarie. Il governo, soprattutto dal 2015 in poi, ha riesumato pratiche di repressione e censura che sembravano dimenticate, conferendo una sorta di impunità alle forze dell’ordine con il pretesto della sicurezza e della lotta al terrorismo. «I prossimi giorni – conclude Torelli – chiariranno se le proteste attuali gradualmente si spegneranno, oppure se il duro confronto nelle piazze perdurerà. La priorità dovrà essere quella di mettere in campo politiche concrete per lo sviluppo delle regioni occidentali e centrali, la riforma del settore della sicurezza e del sistema giudiziario e la competitività dell’economia. Non è un compito facile, ma è necessaria la volontà politica di realizzarlo. L’alternativa è la mobilitazione permanente. O il ritorno al passato».