Protagonista del cambiamento sul grande e piccolo schermo italiano, stella di Netflix in Summertime, della Rai in Doc -nelle tue mani e candidato ai David di Donatello come miglior attore protagonista per il film Easy Living, Alberto Boubakar Malanchino, 29 anni, racconta la sua esperienza come attore e dei cambiamenti del cinema italiano negli ultimi anni.
di Michela Fantozzi
In che progetti è attualmente coinvolto?
«In questo momento sto girando la seconda stagione di Doc – nelle tue mani che, se tutto va bene, dovremmo chiudere entro dicembre con un imminente ritorno nelle case di tutti. Poi sono impegnato sul set di Summertime 3, mentre sempre per Netflix, il 27 di ottobre è uscito Guida astrologica per cuori infranti, con la regia di Bindu De Stoppani e Michela Andreozzi. Il personaggio che interpreto, Andrea Magni, è un un po’ più circoscritto e rimirato, ma è molto bello, totalmente differente da Gabriel e Anthony».
Ha interpretato Alessandro de’ Medici per un cortometraggio di Dafne Di Cinto. Sapeva, prima di incontrare il progetto di Di Cinto, che un personaggio così importante nella storia medioevale italiana era afrodiscendente?
«Per niente. A parte che la storia dei Medici è biblica, ma francamente non credo di essermi mai soffermato negli anni di scuola sulla vita di Alessandro. La prima volta che ne sono venuto a conoscenza è stato quando ho dovuto fare il provino per Dafne».
«La cosa pazzesca, che mi ha fatto andare fuori di testa e prima ancora aveva mandato fuori di testa lei, era sapere che era un personaggio sì italiano, ma afrodiscendente. Poi ci sono accademici che hanno opinioni contrarie, c’è un tentativo di non legittimare la discendenza africana del primo duca di Firenze, però basta guardare semplicemente gli affreschi di Alessandro per capire che abbiamo molto più in comune io e lui che lui e un vichingo».
Che esperienza è stata quella nei panni di Alessandro de’ Medici?
«Sono molto contento che Dafne mi abbia coinvolto, perché mi ha dato la possibilità di recitare la parte di un personaggio che è esistito realmente. Quello che amo del mio lavoro è la possibilità non solo di recitare ma di andare a fondo nelle storie dei personaggi. E, dato che quasi sempre le mie interpretazioni ruotano attorno alle questioni dell’afrodiscendenza, avere la possibilità di studiare un personaggio storico, italiano, che è veramente esistito e che era anche afrodiscendente mi ha dato la possibilità di darmi un’idea diversa della storia dell’afrodiscendenza in Italia».
Cosa ne pensa della rappresentanza nelle nuove generazioni italiane oggi in Italia?
«Penso che in Italia si stia facendo un grande sforzo per raggiungere degli standard che, non voglio dire siano internazionali, ma che vadano oltre la nostra vecchia dimensione del cinema che è sempre stata campanilistica, di Paese, molto nazionale. Diciamo che nella storia del cinema italiano, non sono il primo a dirlo, c’è sempre stato un monopolio di storie medio borghesi, ambientate a Roma, storie che si sono sedute sui distributori dei film e successivamente hanno lasciato lo spazio ai cinepanettoni. Non hanno dato modo di far esplodere diverse sottoculture del Paese, tra cui anche quella nostra di afrodiscendenti, che non hanno una grande rappresentazione».
Crede che le cose stiano cambiando?
«In questo momento che c’è stato un piccolo scatto, e questo scatto a livello nazionalpopolare è partito con Nero a metà, con Doc-nelle tue mani, adesso anche con Zero, con Summertime a modo suo, prodotti molto diversi l’uno dall’altro, per il modo in cui affrontano la nerezza ma che cercano di smarcarsi dallo stereotipico più classico che una persona può avere in mente quando associa un colore a una dinamica socioculturale ed economica».
Un cambio di paradigma.
«Questo è solo un primo passo, il mio auspicio è quello che da qui ai prossimi anni ci siano non solo medici, ma anche poliziotti, politici, farmacisti e panettieri afrodiscendenti e che ci sia la possibilità di cambiare la narrazione su di noi. Perché continueranno ad esistere storie di migrazione e di tratta, non vorrei che si creasse l’effetto contrario per cui di certi problemi non si deve parlarne: è importante continuare a sensibilizzare le persone. Ma non dovrebbero essere gli unici riferimenti o i principali. Non è che se io sono nero allora devo recitare solo la parte del migrante».
Secondo lei, quando è iniziato questo processo?
«Ho visto cambiare il cinema e la tv con la mia esperienza: sono giovanissimo, tra pochi giorni avrò 29 anni, sono uscito da scuola nel 2016, e mi sono reso conto che da allora c’è stata una rivoluzione totale. Quando sono uscito da scuola volevo avere anche io la possibilità di essere un protagonista ma sapevo che la società non mi permetteva di fare certi tipi di ruoli. Il problema non era mio, ma sociale. Poi mi sono reso conto che andando avanti, le cose si sono sbloccate velocemente. Vent’anni fa era impensabile che qualcuno come me avesse i ruoli che sto recitando. Negli anni 90 non c’erano così tanti immigrati come adesso. Questo cambiamento con il tempo si riversa nei processi di scrittura, non è una cosa immediata, ma prima o poi arriva. Il cinema dovrebbe farsi sempre di più da rappresentante di questo cambiamento, e non solo il cinema».
A cosa si riferisce?
«Mi piacerebbe, e questo lo dico un po’ per provocazione un po’ perché vorrei passasse il messaggio, che questo pensiero fosse veicolato sempre di più anche dal teatro. Paradossalmente, il teatro, che dovrebbe essere un luogo dedito alla libertà estrema, per una questione di persone che si sono arroccate in certe tradizioni di pensiero, fanno ancora fatica ad avere al loro interno varietà di personale, gente che è sì italiana però magari è anche altro. Questo mi piacerebbe vederlo di più- anche perché in Italia la maggioranza delle accademie che abbiamo sono di recitazione teatrale».
(Michela Fantozzi – NuoveRadici.world)