di Stefano Pancera
Google espande il supporto vocale a 15 nuove lingue africane, favorendo l’accesso digitale per milioni di persone grazie all’IA. Questa innovazione migliora inclusione, istruzione e preservazione culturale, nonostante sfide linguistiche e interrogativi politici.
Accesso alla rete, investimenti e formazione, lotta al “digital divide”. Facciamo il punto “shi ne batu” (in lingua hausa che per inciso parlano oltre 50 milioni di persone).
Google in collaborazione con il team di ricerca con sede ad Accra, in Ghana, prosegue il suo piano di sviluppo tecnologico nella regione annunciando per altre 15 lingue africane l’integrazione con Voice Search: servizi che trasformano un input vocale in un testo scritto sulla tastiera o in una la traduzione automatica.
Tra le altre citiamo le lingue Chichewa, Hausa, Igbo, Tigrinya e Yoruba – il che e porta il numero totale di lingue con supporto vocale in Africa a 25 e 94 lingue in tutto il mondo. Questa estensione linguistica è stata resa possibile ovviamente grazie ai progressi nell’IA.
Il prossimo decennio sarà il decennio digitale dell’Africa sub-sahariana e si stima che per la prima volta, oltre la metà della popolazione della regione avrà accesso a Internet.
Il più grande motore di ricerca supporta ora in Kenya il Kikuyu, ma anche Twi, una delle lingue più parlate in Ghana, così come altre 4 lingue principali della Nigeria: paese con oltre 500 lingue e 218 milioni di persone. Hausa, Yoruba, Igbo sono parlati da circa 130 milioni di persone, il 60% della popolazione nigeriana.
Le nuove lingue introdotte consentono ad altri 300 milioni di africani la dettatura (input vocale) per comunicare con il web o con gli amici usando solo la loro voce. Il che è non è poco per tutti quelli che tra i più giovani- vivendo in zone rurali e di economia informale – hanno qualche difficoltà con la scrittura.
Non tutte hanno ovviamente lo stesso livello di sviluppo. Ad oggi circa 25/30 lingue africane hanno un robusto livello di integrazione tecnologica (swahili, yoruba, hausa e zulu ad esempio) mentre altre si trovano in una avanzata fase sperimentale.
Facile immaginare però come questa spinta possa produrre effetti benefici sull’accesso a fonti di istruzione vocale per i bambini sprovvisti di materiale didattico, o anche per la conoscenza di atti civici e politici redatti solo nelle lingue coloniali.
Certo, le lingue africane sono particolarmente complesse e non sempre – almeno per ora – le applicazioni rilasciate sono in grado di capirne sfumature, doppi sensi, inflessioni. La sola tonalità nella dizione di una parola ne cambia spesso il significato, ad esempio in yorubà la parola “ba” a seconda della tonalità può significare “incontrare” ma anche “fallire”. Ma il punto focale potrebbe essere in realtà più “politico”.
Le tecnologie di traduzione vocale sia pure imperfette sono una strada maestra per aprire sempre più l’Africa ai non africani, rovesciando il paradigma: tradurremo reciprocamente dalle nostre rispettive lingue senza che una “domini” necessariamente sull’altra?
Non solo, tra i giovani del continente la condivisione delle proprie lingue preserverà la propria identità culturale ma nello stesso tempo potrà rafforzare il confronto e la coesione verso gli obiettivi comuni di quei ventenni che – lo si voglia o no – governeranno presto il loro Paese.
Qualcuno però potrebbe avere il dubbio che dietro questa “potenza di fuoco” ci sia una strisciante forma di colonizzazione tecnologica di matrice americana, ma non tutto si decide a Seattle, i tempi sono cambiati e non a caso una figura emblematica del nuovo corso della tecnologia africana è ad esempio Tidjane Deme.
Nato a Dakar, ha iniziato la sua istruzione in Senegal, ex amministratore delegato di Google Africa all’età di soli 34 anni, oggi è responsabile di Partech Africa – fondo di sviluppo dedicato alla tecnologia nel continente. La sua storia – tra le tante – rappresenta un esempio di come un forte legame con le proprie radici e una visione globale possano contribuire alla crescita del panorama tecnologico tutto africano. Decine di grandi gruppi di investimento hanno stanno supportando start-up africane come Crop2Cash (Nigeria), BuuPass (Kenya), Kaya (Sud Africa) e Talamus Health (Ghana).
Un altro degli architetti artefice di una IA “made in Africa” è Abdoulaye Diack. Cresciuto dai nonni nel piccolo villaggio di Passy, in Senegal, dopo aver vissuto in Francia, Stati Uniti e Canada, ha fondato del primo laboratorio di intelligenza artificiale africana di Google, con sede in Ghana e oggi si è posto una missione: consentire ai ricercatori del continente di sviluppare progetti e di lavorare in Africa.