In mezzo a mille cattive notizie, l’anno 2020 sembra cominciare almeno con un buon auspicio: il 15 gennaio, rispondendo a un’interrogazione del deputato radicale Riccardo Magi, la ministra dell’Interno ha spiegato alla Camera che «l’intenzione del governo è quella di valutare le questioni poste dall’ordine del giorno approvato il 23 dicembre scorso».
Per chi abbia seguito il dibattito di questi mesi il riferimento è chiaro: il 23 dicembre scorso la Camera aveva approvato un ordine del giorno che parlava esplicitamente di una regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia senza documenti. Le parole di Lamorgese significano che il governo sta valutando l’ipotesi di una «sanatoria». Non è ancora una buona notizia, ma è appunto un buon auspicio [qui il resoconto integrale della discussione].
Un provvedimento ancora da costruire. In effetti, sono moltissimi gli stranieri che sperano in una prossima regolarizzazione. Nel dibattito pubblico si parla quasi esclusivamente di quei migranti che, con l’abolizione dei permessi umanitari, si sono visti rifiutare la domanda di asilo (il permesso umanitario era appunto una delle più diffuse tipologie di asilo): ma la platea dei potenziali beneficiari è assai più ampia.
Con la crisi economica, per esempio, molti lavoratori stranieri regolari sono stati licenziati, non sono riusciti a trovare un nuovo impiego e di conseguenza non hanno potuto rinnovare i loro permessi di soggiorno. Ci sono poi gli immigrati giunti in Italia con un semplice visto turistico, che hanno trovato un impiego ma non hanno potuto mettersi in regola (le leggi vietano la trasformazione di un visto turistico in un permesso per lavoro).
L’elenco potrebbe continuare a lungo: con le norme in vigore è assai difficile – e spesso addirittura impossibile – entrare in Italia o rimanerci legalmente, e perciò il numero di irregolari è cospicuo, anche se difficile da quantificare (le stime in questo campo, è bene ricordarlo, non hanno alcuna affidabilità). Già in queste ore, dunque, l’annuncio di Lamorgese sta suscitando speranze e attese: come si potrà accedere a questa nuova regolarizzazione? Quali requisiti saranno necessari? Chi potrà fare la richiesta e ottenere il sospirato permesso di soggiorno?
È bene sapere che a queste domande non è possibile dare una risposta: la regolarizzazione non c’è, perché non è stata approvata nessuna legge, e dunque non vi sono «requisiti» da soddisfare.
L’ordine del giorno approvato dalla Camera il 23 dicembre formula due possibili proposte. Una prima ipotesi è quella di mettere in regola gli stranieri che già lavorano «al nero», a patto che siano gli stessi datori di lavoro ad autodenunciarsi (cioè a dichiarare di aver assunto un immigrato). Una seconda ipotesi è quella di concedere un permesso di soggiorno allo straniero qualora un’azienda (o una famiglia nel caso dei domestici) sia disposta ad assumerlo. I datori di lavoro dovrebbero pagare un contributo di 200 euro per ogni lavoratore regolarizzato. Si tratta, beninteso, soltanto di ipotesi, che potrebbero anche cambiare nel corso del tempo, ma che ci consentono almeno di avanzare una prima riflessione.
È necessaria una soluzione di compromesso. Non è un mistero che il clima politico sia complessivamente ostile a un provvedimento di regolarizzazione. Proprio in queste ore, giornali e partiti della destra si stanno scatenando contro quella che già chiamano la «maxi-sanatoria» (!), e c’è da scommettere che anche all’interno della maggioranza i pareri siano per lo più negativi. La stessa ministra Lamorgese è apparsa assai cauta, e si è limitata a dire che il governo «sta valutando»: come a dire che anche a Palazzo Chigi ci sono riserve e perplessità.
In un clima così ostile, è fin troppo ovvio che ottenere una regolarizzazione è – e resta – un obiettivo difficile. Ancor più difficile è far approvare un provvedimento che consenta davvero l’emersione di migliaia di cittadini stranieri irregolari: il rischio è che, in mezzo a mille «veti» e «paletti», si arrivi a una legge che non serve a nulla. Non sarebbe la prima volta che accade una cosa del genere.
Da questo punto di vista, chi – come l’onorevole Magi – ha avuto il coraggio di avviare una trattativa, si trova di fronte a un compito delicatissimo. Si tratta, in sostanza, di «far pesare» nel dibattito politico le molte voci della società civile – Chiese, associazioni, sindacati, ma anche piccole e medie imprese e importanti settori produttivi – che chiedono politiche più realistiche in materia di lavoratori stranieri; al contempo, si tratta di arrivare a un compromesso accettabile, perché è ovvio che in questo clima politico non è pensabile di ottenere la «regolarizzazione perfetta» (ammesso poi che esista, una regolarizzazione perfetta…). Vediamo di spiegarci con un paio di esempi.
Una prima trappola: l’autodenuncia del datore di lavoro. Come abbiamo visto, l’ordine del giorno del 23 dicembre propone di regolarizzare gli stranieri sulla base di una «autodenuncia» dei datori di lavoro: è una procedura che conosciamo bene, perché ha caratterizzato tutte le «sanatorie» degli scorsi anni, a partire dalla Bossi-Fini del 2002. Significa, in sostanza, che non è l’immigrato che chiede di regolarizzarsi: solo il datore di lavoro può presentare una domanda di «emersione».
Nelle scorse sanatorie, molte aziende si rifiutarono però di denunciare i loro rapporti di lavoro al nero, anche per la paura di possibili conseguenze legali. Nel provvedimento del 2012, per dire, se la procedura non andava a buon fine (se cioè la domanda non veniva accettata), il datore di lavoro poteva essere denunciato per aver assunto un irregolare: questo rischio indusse molti a non presentare la domanda, e la sanatoria si rivelò un vero e proprio “flop”.
L’ideale sarebbe garantire agli stessi migranti il diritto di richiedere la regolarizzazione: sarebbe la procedura più logica, e anche quella più garantista. Se ciò non fosse possibile – se cioè un provvedimento di questo genere incontrasse troppe resistenze –, sarebbe meglio approvare la seconda ipotesi avanzata dall’ordine del giorno del 23 dicembre: quella di regolarizzare gli immigrati non in base a un rapporto di lavoro già esistente, ma a fronte di una proposta di assunzione.
La seconda trappola: la «tassa» sulla regolarizzazione. Un secondo punto riguarda la «tassa» di 200 euro per accedere alla procedura. Sembra evidente che una misura di questo genere sia stata proposta soprattutto per vincere le prevedibili resistenze delle burocrazie ministeriali (e di una parte del mondo politico): in questo modo, infatti, il provvedimento di regolarizzazione avrebbe il non trascurabile effetto di garantire cospicui introiti per lo Stato.
Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il sole: quasi tutte le sanatorie degli anni passate prevedevano una qualche forma di «contributo» a carico dei richiedenti. E proprio dall’esperienza degli scorsi decenni abbiamo imparato una cosa: benché in teoria fossero i datori di lavoro a dover sborsare il contributo, all’atto pratico l’onere è ricaduto quasi sempre sulle spalle dei migranti. Il meccanismo, prevedibilissimo, consisteva in una sorta di scambio: io, datore di lavoro, accetto benevolmente (si fa per dire…) di presentare la domanda di regolarizzazione in tuo favore, ma tu in cambio paghi il contributo al posto mio.
Tener conto di questo meccanismo è importante, perché è necessario evitare che i migranti si indebitino (e magari finiscano nelle mani di strozzini e usurai) per accedere alla procedura. L’ideale sarebbe di non prevedere nessun contributo monetario: in fin dei conti – secondo alcune stime – anche senza la «tassa» la regolarizzazione porterebbe nelle casse dello Stato la bellezza di 1 miliardo di nuove entrate fiscali e di 3 miliardi di maggiori contributi previdenziali.
Infine, si dovrebbe evitare lo stillicidio di requisiti «ostativi» (che impediscono cioè di accedere alla procedura di regolarizzazione). In alcune sanatorie precedenti, ad esempio, si cercò di introdurre la regola per cui uno straniero destinatario di espulsione non poteva presentare la domanda: il che è una contraddizione in termini, perché qualsiasi irregolare può essere vittima di una espulsione.
Insomma, sarebbe necessario un provvedimento realistico, che consenta effettivamente l’emersione degli irregolari. La strada è difficile, ma una porta si è aperta.
(Sergio Bontempelli)