La scuola degli imam

di claudia
imam

A Rabat gode ottima salute un prestigioso istituto, gestito dallo Stato, che forma ogni anno più di mille imam, uomini e donne, provenienti anche da altri Paesi africani. Così il Marocco contrasta il fondamentalismo, promuovendo una corretta lettura del Corano e tenendo le moschee sotto controllo

di Tommaso Meo – foto di Pascal Maitre / Luz

Nel quartiere universitario di Madinat al-Irfane, nella capitale marocchina Rabat, sorge la scuola più peculiare e influente di tutto il Paese e non solo. È l’Istituto Mohammed VI per la formazione di imam mourchidine e mourchidat – le guide spirituali – istituito dall’omonimo re nel 2014 e inaugurato l’anno successivo con un investimento iniziale di 230 milioni di dirham (circa 22 milioni di euro). La scuola ha l’obiettivo di contrastare le derive fondamentaliste dell’islam sunnita attraverso una migliore comprensione della pratica religiosa e una lettura corretta dei testi sacri.

La formazione religiosa è diversa dall’insegnamento – che produce esperti di diritto islamico – e ha invece lo scopo di preparare figure qualificate per ricoprire i ruoli religiosi nelle moschee. Per accedere alla scuola bisogna avere meno di 45 anni e almeno un diploma universitario. I posti sono limitati, ma gli studenti ammessi ricevono 2.000 dirham al mese (190 euro) oltre all’alloggio gratuito, biglietti aerei e assicurazione sanitaria.

Alunni anche dall’estero

All’Istituto Mohammed VI al momento studiano circa 1.300 giovani, tra cui più di un centinaio di donne. Oltre che dal Marocco la maggior parte degli studenti proviene dall’Africa subsahariana. Arrivano a Rabat da Mali, Senegal, Nigeria, Guinea, Gambia e Ciad, quasi tutti Paesi con una stabilità precaria o dove sono attivi in diversa misura gruppi islamisti legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico. Qualcuno viene però anche dall’Europa, dalla Francia in particolare.

Il corso di studi, che dura tre anni, prevede studi islamici insieme a filosofia, storia delle religioni, educazione sessuale e nozioni di salute mentale. I futuri imam ricevono però anche una formazione professionale come elettricisti, nei lavori agricoli o nella sartoria, per consentire loro di avere una fonte di reddito stabile una volta tornati a casa.

Per capire come il Marocco si sia trovato a essere un punto di riferimento per questo tipo di formazione e una specie di oasi in Africa per l’islam moderato occorre fare un salto indietro di quasi vent’anni. C’è stato un tempo, infatti, in cui l’islam che si professava nel Paese non era votato all’apertura come ora. I soldi delle petromonarchie del Golfo avevano finanziato anche qui moschee dove si teneva una predicazione violenta, favorendo la nascita di sette integraliste.

Lo shock del terrorismo

Tuttavia il Marocco era tra i Paesi che si ritenevano immuni al terrorismo di matrice islamica nei primi anni Duemila. Proprio per questo, «gli attentati capitati qui sono stati uno shock tale da accelerare una stretta nei confronti dell’integralismo islamico», spiega Paolo Branca, professore di Islamistica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Gli attacchi terroristici del 2003 a Casablanca provocarono 45 morti e un centinaio di feriti, colpendo anche diversi stranieri e sconvolgendo la società. In seguito a quei fatti la politica marocchina iniziò ad attivarsi per scongiurare derive di quel tipo: chiuse moschee e rimosse i predicatori “cani sciolti”, ma l’intervento non si limitò a questo.

Fu fatto un censimento e fu estesa una rigida sorveglianza sulle 52.000 moschee del Paese. Ogni progetto di nuovo luogo di culto viene tuttora attentamente vagliato dai servizi del ministero degli Affari islamici, che per prima cosa si accertano da dove provengano i finanziamenti. L’edificio deve poi essere conforme alla tradizione architettonica delle moschee marocchine; infine, una commissione che riunisce il consiglio locale degli ulema – i dottori di diritto islamico – e le autorità politiche decide se dare il via libera.

«Ritorno alla tradizione»

Tra gli artefici del cambio di rotta ci fu il ministro degli Affari islamici, Ahmed Toufiq, 77 anni, in carica dal 2002. Dal suo ministero ha realizzato, sotto la guida di re Mohammed VI, quello che ha chiamato il «ritorno alla tradizione». Una restaurazione resasi necessaria dal momento che la forma di islam predicata in Marocco era stata «sconvolta dalla modernità, dalle ideologie, dalle influenze straniere, dalle deviazioni di ogni tipo», ha spiegato a Figaro Magazine.

Secondo Toufiq, il Marocco doveva riconnettersi con la propria storia e proteggere la religione dalla corruzione e dall’estremismo. «Il Marocco è storicamente un luogo dove veniva predicato un islam moderato già nel passato», spiega Branca. «Qui si professava la dottrina malakita, una delle quattro sunnite, che rappresentava una via mediana per l’islam».

Con un occhio al recupero della tradizione, a partire dal 2005 il regno iniziò a investire anche nella formazione delle guide spirituali per eliminare alla radice la lettura fondamentalista del Corano, che non doveva più prendere piede in nessuna moschea. Il progetto, prima rivolto a circa 200 imam marocchini, iniziò ben presto ad aprirsi all’Africa subsahariana, con la stipula di patti a livello istituzionale. Nel 2013 il Marocco strinse un accordo con il Mali per la formazione di circa 500 aspiranti imam. In seguito, molti altri Paesi africani ed europei chiesero di essere inclusi nel progetto. Da questa esigenza è nato l’Istituto Mohammed VI, che negli anni è stato ampliato per accogliere più studenti e oggi conta 14 classi.

«Modello da replicare»

La formazione di imam provenienti da altre nazioni africane «può aiutare le comunità locali ad affrontare i problemi con la militanza islamista e a colmare un vuoto nella supervisione delle guide religiose», ha scritto il ricercatore marocchino Salim Hmimnat. Dal canto suo Rabat ha guadagnato in autorevolezza e in soft power nella regione, rendendo gli ex studenti ambasciatori della via marocchina all’islam nei rispettivi Paesi. Così, se l’obiettivo principale della scuola era contrastare le letture estremiste della religione, nel tempo l’istituto è diventato anche «uno strumento strategico della politica estera del Paese, che punta a presentarsi come polo spirituale d’avanguardia», ha notato ancora Hmimnat.

Negli ultimi dieci anni il Marocco ha maturato sempre più una reputazione di Paese arabo moderato e partner internazionale affidabile. Tutto ciò ha dato frutti anche in campo diplomatico. A fine 2020 il Marocco è stato tra i Paesi arabi che hanno ripreso i rapporti con Israele, firmando gli “accordi di Abramo”, sponsorizzati da Washington. In cambio, Rabat ha incassato il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della sovranità di Rabat sul territorio conteso del Sahara Occidentale.

Nel 2019 il lavoro di riposizionamento del Marocco era culminato nella storica visita di papa Francesco a Rabat. Il pontefice aveva lodato esplicitamente la scuola per imam della capitale e indicato il Paese come un ponte tra Europa e Africa anche per quanto riguarda il dialogo interreligioso.

Un dialogo che per il professor Branca dovrebbe rappresentare sempre di più la norma. Secondo il docente della Cattolica, l’Istituto di Rabat può diventare un esempio concreto anche per l’Europa: «Il fatto che questi ragazzi e ragazze studino e diventino imam in Marocco seguendo una linea moderata è apprezzabile, ma vedo un po’ mancare cose simili in Europa». Per lo studioso «sarebbe ora di portare anche qui in Italia facoltà di teologia che permettano agli studenti di formarsi e diventare guide religiose».

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