La sfida dell’industrializzazione dell’Africa

di claudia

di Mario Giro

Lo sviluppo del settore industriale – cruciale per la valorizzazione delle proprie ricchezze naturali e per creare posti di lavoro – è un impegno inderogabile per i governanti africani che porta con sé sfide impegnative ma anche opportunità di collaborazione che potrebbero essere colte dall’Italia. A condizione che si affrontino efficacemente i problemi che finora hanno frenato la crescita del continente

Uno dei temi fondamentali per il Piano Mattei è quello dell’industrializzazione dell’Africa. Non si deve pensare per forza a industrie pesanti come quelle dell’acciaio, della cantieristica o dell’auto come in Asia. Né alla creazione di intere filiere produttive che spuntino dal nulla. Si tratta di immaginare per il continente qualcosa di sostenibile, non tanto in senso ecologico ma in quello della connessione con la realtà. Per questo parlare di industrializzazione africana ci porta piuttosto verso il tessile o l’agribusiness, come tentano già di fare alcuni Paesi. Non va nemmeno lasciato da parte il tema delle materie prime rare, come le terre rare tipo coltan, litio ecc. Se non è ancora pensabile la creazione di un intero settore produttivo attorno ad esse, nondimeno l’idea di pre-lavorazioni e raffinazioni in loco è da prendere in esame, come ha fatto la Tanzania che dal maggio 2024 non permetterà più l’esportazione di litio non raffinato dal Paese. Per avere successo l’industrializzazione ha bisogno di una strategia adattata alle condizioni correnti del continente e del mercato globale.

Come sostiene su Jeune Afrique la giornalista Estelle Maussion, dal momento che non esiste una ricetta miracolosa, tocca a ciascun Paese definire il proprio piano d’azione alla luce delle risorse che possiede, dei vantaggi comparativi (porti, trasporti, accessibilità ecc.) e dell’abilità ad inserirsi nelle catene del valore globali. Inoltre l’Africa non è un solo Paese ma 54 stati e ognuno di essi deve trovare uno o più settori in cui cimentarsi. In un momento storico in cui la globalizzazione si ristruttura mediante l’accorciamento delle filiere e il friendshoring (la capacità di produrre e approvvigionarsi da Paesi che sono alleati geopolitici), le opportunità si moltiplicano. L’Africa può trovare la propria occasione e il proprio momento opportuno offrendosi come partner commerciale. Il tema è sapere a quali porte bussare e come proporsi. In questo l’aiuto dell’Italia come partner potrebbe essere decisivo, inserendo nel piano Mattei una parte di consulenza e joint ventures che tengano conto delle nuove opportunità di mercato offerte dalla ricollocazione delle catene del valore globali. È necessario imparare a leggere le nuove esigenze globali a partire dall’Africa: in quali settori, Paese per Paese, l’Africa può offrire valore aggiunto? È ovvio che in un continente dal forte potenziale agroindustriale e dove la popolazione che lavora in agricoltura è ancora molto ampia, la valorizzazione della connessione industria e agricoltura appare fondamentale. Altre carte da giocare sono il basso costo della manodopera, l’aumento del tasso di scolarizzazione dei giovani, regole ecologiche meno severe e così via.

Un aspetto importante sarà la collaborazione del settore privato. Sono necessarie leggi e norme che semplifichino il processo di creazione d’impresa, facilitino la concessione di incentivi fiscali, riducano la burocrazia e liberalizzino il più possibile l’attività privata, senza sottoporla ai rigidi vincoli del passato. In cambio gli stati potranno chiedere la cooperazione nello sforzo di determinare le politiche industriali necessarie. Naturalmente tutto questo sta in piedi se c’è stabilità politica, lotta alla corruzione e certezza del diritto negli investimenti. Solo così si potranno affrontare con successo le difficoltà logistiche ed energetiche del continente. Malgrado l’Africa ne produca in quantità, il costo medio dell’energia è più alto del resto del mondo. Di conseguenza il compito dei governi sarà di negoziare migliori accordi con le imprese transnazionali energetiche, sia quelle globali che quelle delle nazioni emergenti. C’è poi la sfida dei trasporti e il loro costo; il problema dei corridoi intermedi; l’assenza quasi completa di ferrovie ecc. Di fronte ai costi di tali infrastrutture che non possono essere coperti solo dalla mano pubblica, servono partenariati pubblico-privato e altre forme di facilitazione come le zone franche.

Qualche passo in avanti è stato fatto sul terreno dell’inclusione finanziaria: ci sono molte più banche africane che raccolgono risparmio e reinvestono; diversi stati emettono buoni del tesoro e bond; i sistemi di raccolta delle imposte iniziano a dare qualche risultato. Com’è accaduto in Europa, c’è bisogno di un sistema di banche popolari, casse rurali e casse di risparmio locali che permettano all’agricoltura di finanziare la propria modernizzazione e al piccolo proprietario di ingrandirsi. Anche questo è un settore in cui l’Italia ha una storica expertise e può divenire un partner ideale. Infine c’è da migliorare il sistema educativo e di formazione: servono le competenze necessarie per l’industrializzazione futura. La scuola africana di qualità si sta privatizzando mentre quella pubblica declina: questa non è una buona notizia. Infatti se si possono trovare delle punte di eccellenza, la media generale si abbasserà dopo che l’alfabetizzazione e l’istruzione di massa erano state il grande successo delle indipendenze africane. È auspicabile che nello sviluppo a venire si possano trovare le risorse pubbliche a lungo termine, necessarie per una manodopera ben formata ed efficace.

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