La speranza tradita del Sud Sudan

di claudia

di Simona Salvi

Flagellata da violenze e crisi umanitarie, la più giovane nazione d’Africa non trova pace. Nato nel 2011 dopo una guerra ventennale, questo Paese sembrava poter rappresentare una speranza. È invece precipitato nel baratro di un nuovo conflitto, a sfondo etnico, alimentato dalla bramosia di potere dei suoi leader. L’instabilità impedisce lo sviluppo, mentre le emergenze legate alle crisi ambientali si moltiplicano

Un anno decisivo per la pace. Così l’inviato Onu Nicholas Haysom ha definito il 2023 per il futuro del Sud Sudan, il Paese più giovane al mondo, nato dopo decenni di guerra contro il Sudan (costati la vita a 2,5 milioni di persone), Paese da cui ha ottenuto l’indipendenza nel 2011, e travolto solo due anni dopo da un conflitto civile. Il conflitto, innescato da una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir Mayardit, esponente dell’etnia dinka, e il suo vice Riek Machar, un Nuer, ha provocato un’escalation di violenze interetniche, con un bilancio di 400.000 morti.

L’accordo di pace raggiunto nel 2018 ha portato alla creazione di un governo di unità nazionale, incaricato di redigere una nuova Costituzione, addestrare forze armate unificate e guidare il Paese alle elezioni, fissate per il dicembre 2024. L’intesa ha attenuato le ostilità specie nei dintorni della capitale Juba, ma nelle regioni periferiche la situazione resta altamente instabile, con scontri frequenti tra le diverse comunità del Paese, acuiti negli ultimi anni dalla crisi economica globale e da shock climatici.

Alluvioni e fame

Quattro anni consecutivi di piogge e inondazioni eccezionali hanno infatti aggravato la crisi umanitaria innescata dal conflitto: in un Paese che conta 12 milioni di abitanti, oggi l’Onu stima essere circa 8,9 milioni quelli bisognosi di assistenza e protezione; 6,3 milioni – il 60% della popolazione – quelli che soffrono di grave insicurezza alimentare; 1,4 milioni i bambini che soffrono di malnutrizione. Numeri record, mai registrati dall’indipendenza. Nel centro-nord del Paese l’acqua ha spazzato via case, ucciso bestiame, allagato zone coltivate e costretto migliaia di persone alla fuga. I sud-sudanesi erano abituati alle inondazioni stagionali del fiume Nilo e dei suoi affluenti, ma dal 2019 la stagione delle piogge inizia prima, dura più a lungo e registra un’intensità di precipitazioni tale che il terreno non riesce ad assorbire l’acqua durante la successiva stagione secca.

Nello Stato settentrionale di Unity, il più colpito dalle inondazioni, interi villaggi sono stati circondanti dall’acqua, rimanendo isolati dagli aiuti perché le strade sono impraticabili e spesso nemmeno l’elicottero riesce ad atterrare, ha raccontato ad Africa Stefano Antichi, capo missione dell’ong Intersos, impegnata nel Paese anche con interventi di emergenza. «La gente mangia i fiori di loto e i frutti degli alberi, perché non ha altro».

Insicurezza cronica

Il Sud Sudan è considerato tra i cinque Paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici, che fungono da moltiplicatore delle difficoltà di una popolazione già stremata da guerra, povertà e continue fughe alla ricerca di sicurezza e cibo. Nel Paese si contano circa 1,7 milioni di sfollati interni, mentre oltre 2 milioni di sud-sudanesi vivono nei Paesi confinanti. E questi eventi climatici estremi rischiano di alimentare le tensioni, «perché la guerra in Sud Sudan è una guerra tra comunità per le risorse», in un Paese dove l’87% della popolazione dipende dall’allevamento e dall’agricoltura.

Spesso, infatti, gli allevatori in cerca di un terreno per il proprio bestiame si spingono verso le terre coltivate dagli agricoltori, innescando scontri che causano nuove vittime e nuove ondate di profughi in assenza di uno Stato che sta ancora muovendo i primi passi e che di fatto risulta assente sul territorio nazionale. Mancano infatti forze di sicurezza capaci di garantire la sicurezza dei civili, tanto che uno dei principali punti dell’accordo di pace del 2018 prevede proprio la creazione di forze armate unificate, composte dai combattenti delle diverse milizie che si sono scontrate in passato. Forze capaci di scongiurare questi scontri intercomunitari che, secondo l’inviato Onu, «potrebbero far deragliare il processo di pace». Un cammino che prevede processi di riconciliazione tra comunità, la stesura di una Costituzione che funga da “nuovo contratto sociale” e la preparazione alle prime elezioni post-indipendenza, per rilanciare così lo sviluppo del Paese più giovane del mondo, ricco di risorse, soprattutto petrolio, ma che oggi non ha strade, infrastrutture, industrie e soprattutto non riesce a garantire i servizi essenziali alla popolazione. Il 9 luglio il Paese celebrerà l’Independence Day. Ma sarà un compleanno amaro, l’ennesimo.

Si muore giovani

La Repubblica del Sud Sudan figura all’ultimo posto nell’Indice Onu di sviluppo umano, con un’aspettativa di vita di 55 anni e un pil pro capite di 230 dollari. Il 59% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile ed è quindi a rischio di malattie trasmesse dall’acqua come colera e diarrea, che sono le principali cause di morte tra i bambini. Situazione aggravata dall’assenza di servizi igienici adeguati, oggi accessibili solo al 10% della popolazione. I tassi di mortalità materna e infantile sono tra i più alti al mondo, in un Paese dove circa due terzi delle 2.300 strutture sanitarie non funzionano, a fronte di stanziamenti di bilancio ancora inadeguati, seppure in aumento negli ultimi anni. Secondo la Banca mondiale, il Sud Sudan ha una spesa sanitaria di 22,6 dollari pro capite, uno dei budget più bassi al mondo, mentre l’Onu stima ci sia un medico ogni 65.000 persone e che il 56% della popolazione viva a più di un’ora di distanza a piedi da una struttura sanitaria.

La natura prolungata dei bisogni e i bassi livelli di investimento, combinati alla crisi economica globale e al calo dei finanziamenti umanitari registrato negli ultimi anni, continuano quindi a minare l’accesso alle cure. Oggi sono le organizzazioni sanitarie, come l’italiana Medici con l’Africa Cuamm, a garantire il funzionamento di ambulatori e pochi presidi ospedalieri. Ma la situazione sanitaria è critica. L’Health Pooled Fund (Hpf), il meccanismo di finanziamento dei donatori internazionali, che sostiene i servizi sanitari in otto dei dieci Stati del Paese, lo scorso anno ha annunciato la sospensione dei finanziamenti a circa 220 delle 797 strutture sanitarie pubbliche che sosteneva dal 2016, e tagli a nove ospedali.

Senza scuole né strade

Drammatico il quadro sull’accesso all’istruzione. Il Sud Sudan, dove l’età media è di 18 anni, conta circa 4,75 milioni di bambini in età scolare, di cui quasi 500.000 sfollati, ma 3 su 5 non hanno mai messo piede in una classe, o hanno abbandonato la scuola. Nel Paese ci sono oggi 8.000 scuole primarie, 120 scuole secondarie e una sola università. «Quando ci sono problemi di sussistenza l’istruzione passa in secondo piano», spiega ad Africa Elena Franchini, coordinatrice progetti in Sud Sudan della Fondazione Avsi, rimarcando che «spesso, se le scuole ci sono, sono lontane chilometri, e spesso mancano gli insegnanti o, se ci sono, sono pagati poco e non in modo regolare».

Una situazione che non incentiva quanti vorrebbero intraprendere la professione di insegnante, racconta la coordinatrice progetti della Fondazione che da anni sostiene il Saint Mary College, a Juba, dove vengono formati insegnanti di scuola primaria. Poche scuole e pochi ospedali, ma soprattutto poche strade, in un Paese esteso più del doppio dell’Italia. Parlando con gli operatori umanitari torna spesso la frase «mancano le strade», e quelle esistenti risultano spesso impraticabili durante la stagione delle piogge. Senza strade i bambini non possono andare a scuola, è difficile raggiungere un centro sanitario in caso di emergenza e si vede ostacolato anche uno sviluppo agricolo che non sia di mera sussistenza. Perché se è vero che il Sud Sudan trae il 90% delle proprie entrate dal petrolio, è altrettanto vero che è un Paese ricco di terra fertile e di acqua, con il Nilo che lo attraversa da sud a nord e che potrebbe essere sfruttato in ambito agricolo, così come in quello ittico.

In un contesto internazionale dominato da altre emergenze come la guerra in Ucraina, il rischio è che vengano meno i finanziamenti necessari a garantire l’assistenza in un momento in cui fame e malnutrizione sono in aumento. E in tale contesto è «vitale», secondo l’inviato Onu, che i leader del Paese agiscano «con urgenza» nel dare attuazione agli impegni previsti dall’accordo di pace e che la comunità internazionale «non dimentichi il Sud Sudan».

Questo articolo è uscito sul numero 3/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o visita l’e-shop.

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