Dakar, fine luglio 2018: per la prima volta si riuniscono movimenti giovanili e studenteschi africani. L’Africa immaginata in Occidente da tempo non esiste più: è ora una pentola in ebollizione in cui i giovani sono un nuovo soggetto, libero da condizionamenti e in cerca di un ruolo.
di Mario Giro
Il civismo africano è già nato e si organizza su scala continentale. A convocare la riunione, il più noto fra i movimenti, “Y’en a Marre” (non se ne può più), il gruppo senegalese che ha contribuito alla caduta del presidente Abdoulaye Wade alle elezioni del 2012. Ma sono in tanti: “Filimbi” (fischio) e “Lucha” (lotta per il cambiamento) della Repubblica Democratica del Congoe “Ras-le-Bol” dell’altro Congo; “En Aucun Cas” del Togo; “Wake Up” del Madagascar; “Jeune et Fort” del Camerun; “GT Jeunes” della Costa d’Avorio; “Sindimuja “(non sono schiavo) del Burundi; “Iyana” del Ciad e altri.
Si definiscono “movimenti civici” o di cittadinanza e hanno numerose rivendicazioni: più democrazia e partecipazione, no alle gerontocrazie e ai presidenti a vita, no alla corruzione e alla repressione, sì all’unità africana e alla libera circolazione, no alla collaborazione anti-migrazioni con l’Europa, liberazione della donna africana, difesa dell’ambiente, no al land grabbing e alle monoculture, ecc. Anche se nel loro pantheon ci sono Fanon, Lumumba o Sankara, non sono ideologizzati e non sposano partiti o candidati. Il loro obiettivo è la democrazia compiuta, ma una democrazia africana. Rappresentano una nuova Africa che diviene soggetto connettendosi e cercando vie diverse per essere protagonista ed esprimere il dissenso davanti ai tanti mali del continente. Non per nulla il titolo di quella riunione era: “Cittadinanza e potere di decidere”.
In questi anni i giovani hanno capito che non bastano sit-in, meeting o concerti di protesta, ma ci vuole una vera e propria organizzazione democratica. Si prosegue a manifestare, anche con violenza, ma l’agenda si fa più sofisticata. Non si tratta di “fare politica”, anzi i politici sono – come dovunque − disprezzati e respinti (politichiens, politi-cani), ma si tratta di appropriarsi degli strumenti stessi della democrazia. L’idea principale è quella di un nuovo ordine africano più responsabile di sé e del proprio ambiente. La retorica delle critiche anti-occidentali (tratta e colonizzazione) passano in secondo piano: adesso “il boia è nero”, cioè è il regime autoritario africano e come tale va combattuto. Anche i fallimenti nel proteggere l’Africa dal Covid rientrano in tale ragionamento. Le élite nazionali sono tacciate di fallimento.
A immagine di ciò che avviene negli Stati Uniti, per esempio in Georgia con Stacey Abrams, in alcuni Paesi africani si organizzano iscrizioni di massa sulle liste elettorali o si stilano richieste per i candidati di tutti i partiti. Proliferano i cantieri collettivi di riflessione dove gli studenti si confrontano su civismo, democrazia, salute, ambiente, ecc. Progressivamente nel continente cadono molti tabù: i giovani ora esprimono più apertamente il dissenso. Una success story del civismo africano è quella del “Balai Citoyen” del Burkina Faso, che ha saputo mobilitare giovani e studenti fino alla caduta del presidente Blaise Compaoré. A Ouagadougou, sul tema del terzo mandato a migliaia sono scesi in piazza con in mano la scopetta (in francese balai) africana di rafia per “spazzare via” corruzione e nepotismo.
La maturazione democratica si vede anche dall’attaccamento alle Costituzioni: in molti casi i leader non riescono più a manipolarle come vogliono. I giovani dimostrano di aver a cuore le carte fondamentali e di non aspettare ordini da nessuno per difenderle.
Foto di apertura di Caroline Thirion/ Afp: Elettrici congolesi consultano le liste elettorali prima di votare a un seggio di Lumbashi, il 30 dicembre 2018
Questo articolo è uscito sul numero 3/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.