La storia dimenticata dei partigiani etiopici

di Marco Trovato
L’altra Resistenza: quella degli Arbegnoch che combatterono la feroce occupazione del regime fascista in Etiopia. Due volte all’anno (per commemorare una terribile strage e una epica vittoria) gli ormai anziani patrioti etiopici, eroi della lotta di liberazione dal fascismo, sfilano con le loro medaglie appuntate al petto per le strade di Addis Abeba… E ricordano i misfatti dell’Italia 

Testo e foto di Adriano Marzi

Per raggiungere la sede dei partigiani etiopici, che combatterono il fascismo dal 1936 al 1941, bisogna attraversare un corridoio buio nascosto tra le viscere di un anonimo centro commerciale. Se non fosse per gli uffici della Commercial Bank of Ethiopia “Arbegnoch Branch” affacciati sulla strada, si potrebbe pensare che gli arbegnoch (“patrioti” in amarico) siano ancora in clandestinità. L’ingresso dell’unico stanzone di cui dispone l’associazione è presidiato, di spalle, da un manichino agghindato da condottiero in groppa a un cavallo di bronzo. All’interno, un vivace gruppo di vecchietti in uniforme militare lavora instancabile tra le reliquie di quello che potrebbe essere un meraviglioso museo.

La scrivania di Ato (“signore”, in amarico) Adamu, presidente dell’associazione, è circondata da centinaia di fotografie in cui sono ritratti gli eroi della Resistenza, ormai quasi tutti defunti. Al suo fianco, due grandi dipinti rappresentano scene della guerra di liberazione: a sinistra, l’esercito etiope e quello italiano si fronteggiano a colpi di baionetta; a destra invece, disseminato di teschi, il campo di battaglia è sotto l’infame bombardamento ai gas nervini dell’aviazione fascista (secondo gli archivi statunitensi, le armi chimiche vennero impiegate su vasta scala: sul fronte nord 1020 bombe caricata a iprite, su quello meridionale 95 a iprite e 271 a fosgene).

INCREDULITÀ

Quando gli chiediamo di raccontarci qualche aneddoto, Ato Adamu comincia tirando fuori da un cassetto La civilisation de L’Italie fasciste en Ethiopie, un vecchio libro francese in cui sono raccolte fotografie e alcuni comunicati militari dell’epoca. Lo sfoglia in silenzio. Sotto ai nostri occhi scorrono le immagini di soldati fascisti che posano fieri accanto ai cadaveri dei nemici, ne tengono le teste mozzate per i capelli o impalate. «Com’è possibile che in Italia qualcuno abbia voluto dedicare un monumento in onore di Rodolfo Graziani?», chiede incredulo e amareggiato. Il comandante italiano delle forze di occupazione dimostrò una crudeltà inaudita macchiandosi di crimini terribili nei confronti di migliaia di civili inermi.

Arbegnoch in parata davanti all’obelisco che ricorda la strage ordinata da Graziani il 19 febbraio durante l’occupazione fascista

Eppure cinque anni fa, il suo comune nativo, Affile, ha pensato di celebrare il gerarca fascista, ministro della Difesa della Repubblica di Salò, costruendo un infame mausoleo (finanziato con soldi pubblici dalla Regione Lazio guidata dall’allora Governatore del Lazio Renata Polverini). «Non capisco», scuote la testa l’anziano partigiano etiopico. E mostra tra le pagine del libro un promemoria del tenente colonnello Francivalle, indirizzato a “sua eccellenza il vice re”: comunica a Graziani che “Addis Abeba è stata ormai ripulita da tutta la mala genia degli stregoni e degli indovini. Si prospetta la opportunità che tale pulizia sia estesa a tutti i territori del vecchio Scioà, ove siffatti elementi infidi godono di grande ascendente presso le popolazioni”.

ORRORE E GIOA

Il promemoria si riferisce alla rappresaglia fascista che il 19 febbraio 1937 fece strage di circa 4mila persone tra la popolazione civile di Addis. Quella mattina, due arbegnoch si avvicinarono al palco dove il vice re Rodolfo Graziani stava tenendo un discorso e lanciarono delle granate. Tre ufficiali italiani morirono, uno perse un occhio e Graziani venne ferito da alcune schegge. L’attentato, opera di due giovani eritrei di nome Moges e Abraha, scatenò la rappresaglia degli occupanti, che venne affidata ai cani più rabbiosi tra le file fasciste.

Ato Adamu, presidente dell’associazione degli Arbegnoch

Vennero massacrati uomini e donne, vecchi e bambini, preti, mendicanti e indovini. Più tardi – come raccomandato da Francivalle nel suo promemoria al vice re – i soldati fascisti passarono a sterminare l’intero clero ortodosso del monastero di Debre Libanos, uccidendo oltre 2mila tra monaci, diaconi, novizi e pellegrini in visita alla città santa. «Ma fu proprio dopo il massacro del 19 febbraio che la Resistenza abissina capì di poter vincere e che i fascisti iniziarono a perdere», dice Ato Adamu. I suoi occhi brillano quando passa a raccontare della liberazione di Addis Abeba, il 5 maggio 1941: scortato dal generale inglese Orde Wingate e dai capi della resistenza etiopica, il ritorno nella capitale di Haile Selassie – rifugiatosi in Sudan durante l’occupazione – venne salutato da una folla impazzita di gioia.

NOTE TRISTI

19 febbraio e 5 maggio sono rimaste ricorrenze importanti nel calendario di Addis Abeba. Ogni anno, gli eredi dei partigiani etiopi tirano fuori vecchie uniformi appuntate di medaglie, buffi copricapo guerrieri, fucili e lance, e sfilano in parata fino alla piazza di Sidist Kilo. Qui, ai piedi dell’obelisco su cui sono scolpite scene che ricordano l’eccidio, porgono le loro corone di fiori in memoria delle vittime.

Qualche anno fa, l’artista italo-etiope Gabriella Ghermandi cantò per loro. Aveva raccolto le storie degli arbegnoch nel romanzo “Regina di fiori e di perle”, diventato poi anche uno spettacolo teatrale, e in alcune canzoni del disco “Atse Tewodros Project”. Quel 19 febbraio, Gabriella intonò “Tew Belew” (in italiano “Lascia stare”), un canto di incitamento per i partigiani etiopi. Una strofa della canzone recita così: “mentre i fascisti facevano entrare tutte quelle le armi, le mitragliatrici e le bombe ai gas nervini, i combattenti etiopi li hanno falciati, accatastati e saltati in padella come il colo (le granaglie, ndr) per il caffè”.

DESTINI INCROCIATI

La lotta contro la dittatura fascista ha reso per sempre fratelli il popolo italiano e quello etiopico. La Resistenza italiana ha potuto contare tra le proprie fila “Carletto” Abbamagal. Arrivato a Napoli nel 1940 come figurante per la Triennale delle “Terre italiane d’Oltremare”, venne trasferito a Macerata quando l’Italia entrò in guerra. Fuggito dal confino, si unì al battaglione “Mario”, una brigata internazionale che contava tra le sue fila volontari inglesi, francesi, polacchi, russi, jugoslavi e di diverse nazionalità africane. Il partigiano etiope Carletto, come venne ribattezzato dai suoi compagni, venne ucciso dai nazisti nel novembre del 1943 sull’Appennino marchigiano. Sul fronte abissino invece, il nome più celebre è quello di Ilio Barontini, che tra la guerra civile in Spagna e la Resistenza in Italia, trovò il modo di unirsi anche agli arbegnoch sugli altopiani.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 3/2017 della Rivista Africa. Acquista una copia pdf della rivista

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