di Federico Monica
Territori già messi a dura prova dalle variazioni del clima diventano teatro di violenze, saccheggi, attentati o scontri militari; l’abbandono delle aree rurali si fa così ancora più rapido e inesorabile. Siccità ed eventi estremi sono quindi la scintilla scatenante di fenomeni molto più ampi che costringono milioni di persone a spostarsi o fuggire.
Ormai cinque anni fa un libro epocale di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini faceva il punto sulla drammatica correlazione fra cambiamenti del clima, insicurezza e migrazioni. A distanza di un lustro le analisi e le considerazioni presenti in “Effetto serra effetto guerra” non solo hanno trovato conferma ma sembrano, purtroppo, destinate ad essere corrette al rialzo.
Soltanto nelle ultime settimane un colpo di stato militare, il secondo nell’arco di pochi mesi, ha scosso il Burkina Faso, mentre una serie di proteste sanguinose hanno travolto il Ciad, paese non certo nuovo all’instabilità e ai conflitti interni, governato da una giunta militare provvisoria dopo la controversa uccisione del presidente Idriss Deby nell’aprile 2021.
Proprio in Ciad fra i mesi di luglio e ottobre si sono verificate le piogge più intense registrate negli ultimi trent’anni che hanno causato inondazioni e distruzione di villaggi e coltivazioni; la FAO calcola che il 40% dei raccolti sia andato perduto. Inoltre all’inizio di settembre le alluvioni che hanno colpito l’area della capitale N’Djamena hanno costretto oltre 70.000 persone a lasciare le proprie abitazioni.
A N’Djamena sono oltre 50 le vittime e almeno 300 i feriti dopo le proteste del 20 ottobre in seguito alla decisione del consiglio militare di transizione di posticipare le elezioni di ben due anni.
Lo staff di ACRA, ONG italiana che opera nel paese dal 1968, racconta di una situazione difficile fra le strade della capitale con un sensibile aumento della presenza di militari, il coprifuoco nelle ore notturne e l’interruzione delle connessioni internet. L’organizzazione, che si occupa prevalentemente di accesso alla nutrizione e all’istruzione, tutela dell’ambiente e protezione dei diritti umani, denuncia anche l’uccisione di un giornalista di radio Cefod, partner di un progetto sulla lotta alla violenza di genere.
I fatti sembrano purtroppo ripercorrere uno schema già visto in molti paesi del Sahel: la siccità crescente mette a repentaglio la sopravvivenza in contesti fragili, scatenando conflitti per l’acqua o le risorse naturali. Per molte persone diventa impossibile continuare a vivere di agricoltura o mantenere le mandrie e le greggi e la scelta è obbligata: muoversi altrove, alimentando la tratta di esseri umani, le periferie sterminate di molte città e, spesso, le fila di organizzazioni terroristiche o integraliste molto abili ad infilarsi dove lo stato è assente e le difficoltà quotidiane sembrano insormontabili.
La tempesta perfetta è scatenata: territori già messi a dura prova dalle variazioni del clima diventano teatro di violenze, saccheggi, attentati o scontri militari; l’abbandono delle aree rurali si fa così ancora più rapido e inesorabile. Siccità ed eventi estremi sono quindi la scintilla scatenante di fenomeni molto più ampi che costringono milioni di persone a spostarsi o fuggire.
Città in prima linea
Spostarsi non significa emigrare: come noto coloro che hanno la possibilità di imbarcarsi in un rischiosissimo viaggio verso l’Europa sono soltanto una minima percentuale; tutti gli altri, la stragrande maggioranza, si dirigono verso le città vicine.
La crescita vertiginosa della popolazione delle città, che riguarda non solo le capitali o le grandi megalopoli ma sempre più spesso i centri medi o piccoli, è frequentemente legata a doppio filo agli effetti dei cambiamenti del clima o dell’insicurezza.
Non a caso nelle statistiche del World Urban Report 2022 di UN-Habitat i paesi con maggiore instabilità sia climatica che politica sono gli stessi che registrano un tasso più elevato di crescita urbana. Mali, Burkina Faso, Ciad, Somalia e Sud Sudan hanno percentuali di crescita stabilmente sopra la media regionale, in molti casi doppie rispetto a paesi vicini.
In questi contesti la siccità diffusa che rende improduttivi i campi o impossibili da abbeverare le mandrie porta molti agricoltori o allevatori ad abbandonare il mondo rurale per cercare fortuna in città, dove le possibilità di sopravvivere con qualche lavoretto informale sono più alte. Allo stesso modo chi fugge da zone rurali a rischio di attentati o di scontri armati tende solitamente a dirigersi verso centri abitati più grandi, considerati più sicuri rispetto a villaggi isolati o remoti.
A tutto ciò si aggiungono gli eventi estremi come le grandi alluvioni che distruggono raccolti e villaggi; i campi attrezzati che i governi o le organizzazioni internazionali approntano in questi casi sono spesso vicini alle città per ragioni logistiche e organizzative oppure, come accaduto nei grandi campi di Kakuma e Dadaab nel nord del Kenya, perdono presto il loro carattere provvisorio e finiscono per diventare città essi stessi.
Gli effetti dei cambiamenti climatici sono quindi l’elemento alla radice di tante crisi ma, come in una spirale inestricabile, urbanizzazione e migrazioni interne finiscono per alimentare ancora una volta la fragilità dei territori e i problemi legati al clima stesso.
Le città, in costante crescita, devono far fronte a una richiesta di acqua sempre maggiore, scontrandosi con il calo delle precipitazioni e l’abbassamento delle falde acquifere; allo stesso tempo l’abbandono delle aree rurali riduce la produzione agricola o dei prodotti dell’allevamento, aumentando l’insicurezza alimentare specialmente nelle aree urbane e rendendo i paesi più esposti alle fluttuazioni dei prezzi sui mercati internazionali.
Rompere la spirale
Come rompere questa spirale? L’attenzione e le grandi risorse sono spesso concentrate sul tema della sicurezza, dalle imponenti operazioni franco-europee, tanto costose quanto inefficaci, alle odierne infatuazioni verso Mosca e i suoi gruppi di mercenari. L’instabilità è indubbiamente un tema strategico, che colpisce direttamente la vita quotidiana di milioni di persone e rende difficile programmare e implementare interventi, eppure potrebbe essere utile allargare lo sguardo e risalire a quella scintilla scatenante che vede nel clima e nelle sue mutazioni l’origine di molte crisi.
Intervenire sul rafforzamento dei territori creando di sistemi diffusi per il recupero e lo stoccaggio dell’acqua, implementando e finanziando strategie di lotta alla desertificazione anche con metodi tradizionali, investendo su progetti per la creazione di filiere sostenibili, promuovendo politiche territoriali e urbane in grado di supportare e rendere attrattive, sicure e ricche di servizi le città secondarie o le aree rurali.
Parlare di clima, ambiente e territori, oggi come non mai, significa anche parlare di sicurezza, migrazioni e stabilità; da qui passa necessariamente il percorso per rompere la spirale che attanaglia il Sahel e altri territori fragili; proprio per questo motivo la Cop27 che si sta svolgendo in questi giorni in Egitto ha un ruolo ancora più importante e delicato.