Il ciclone Idai che si è abbattuto a marzo su Mozambico, Zimbabwe e Malawi ha seminato devastazione e morte: circa 800 persone uccise, seicentomila abitazioni distrutte, mille chilometri di strade e ferrovie danneggiati. Mentre l’Africa australe era flagellata da venti furiosi e piogge torrenziali, dal Nord del Kenya filtravano notizie delle prime vittime della carestia che da mesi interessa il Lago Turkana. In questa regione la forte siccità ha distrutto i raccolti e messo in ginocchio intere contee. A migliaia hanno lasciato i villaggi in cerca di aiuti. Negli slum di Nairobi e Harare i predicatori delle Chiese evangeliche e pentecostali hanno letto in queste catastrofi i segni premonitori della fine del mondo.
Toni meno apocalittici, ma per nulla rassicuranti, sono stati usati dai climatologi. Le emergenze legate a siccità o alluvioni ci sono da sempre. La novità sta nella loro intensità e frequenza. Negli ultimi 25 anni, sono raddoppiate, e nel continente africano si è registrato il conseguente tasso di mortalità più elevato del pianeta. L’inondazione del 2000 in Mozambico provocò almeno 800 morti; stesso bilancio, nel 2001, per le vittime di alluvioni nel Nord dell’Algeria. Tra il luglio 2011 e la metà del 2012, ha colpito l’Africa orientale quella che è stata detta “la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni”. Allarmi umanitari a causa del clima sono stati ripetutamente lanciati in questi anni da governi e agenzie delle Nazioni Unite per Etiopia, Somalia, Sudan, Niger, Ciad, Mali, Mauritania, Senegal… «L’Africa è destinata a pagare più di tutti il prezzo dei cambiamenti climatici», ha ammonito poche settimane fa il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.
Fiumi e laghi si prosciugano, le nevi del Kilimangiaro e dell’Atlante marocchino scompaiono. Ogni anno si perdono 12 milioni di ettari di terre fertili. A inaridirsi è soprattutto il Sahel, da dove nascono migrazioni, traffici e terrorismo che coinvolgono anche noi. L’anno scorso, si legge in un rapporto Unhcr, 18 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case per fuggire un evento meteo estremo: per il 95% esse provenivano da Paesi a basso reddito (quelli con meno responsabilità nel riscaldamento globale).
Nell’ultimo decennio, i migranti forzati dell’ambiente sono stati mediamente 21 milioni l’anno. I cambiamenti climatici e l’inaridimento del suolo potrebbero costringere più di 100 milioni di persone alla fame entro il 2030, alimentando migrazioni e conflitti. Già oggi il numero dei profughi climatici è superiore a quello delle vittime di guerre e persecuzioni; ma la Convenzione del 1951 sui rifugiati non li contempla. Sarebbe tempo di aggiornarla. Impegnandoci al contempo a mitigare gli effetti catastrofici che stiamo provocando sul pianeta. Ben conosciamo la posizione degli Usa di Donald Trump. E temiamo di scoprire quella che uscirà dall’Unione Europea dopo le elezioni di maggio. Tuttavia, la salute della Terra dovrebbe interessare anche ai sovranisti ossessionati dalla “minaccia migratoria”. Perché l’inquinamento non conosce frontiere. Come le sue vittime.