Nel Congo Brazzaville, trent’anni dopo la “Conferenza nazionale” verso la democrazia, nulla è cambiato, se non in peggio. Il potere del presidente Denis Sassou Nguesso si è inasprito e ha assunto le sembianze di una dittatura. Il Congo si classifica oggi come uno dei Paesi più corrotti al mondo e non è permessa alcuna forma di dissenso
di Angelo Ravasi
La storia è uno spietato giudice. Sono passati trent’anni dalla “conferenza nazionale” verso la democrazia, e in Congo Brazzaville non è cambiato nulla. Anzi. Il potere del presidente Denis Sassou Nguesso si è ancora di più consolidato, ma non con le armi dello sviluppo della democrazia. Si è inasprito ulteriormente e assomiglia a una vera e propria dittatura. Il trentesimo anniversario di quella conferenza è festeggiato dalle opposizioni, ma con l’amaro in bocca: “Possiamo dire che la delusione è totale”, e questo, più che altrove in Africa, è evidente in Congo Brazzaville.
Era il 1990-1991 e sulla scia della caduta delle dittature sovietiche, il presidente francese Francois Mitterand ha avvertito gli autocrati africani – tra cui Sassou Nguesso – al vertice di La Baule: “Senza democrazia, meno aiuti”. Ma non è andata propriamente così. Gli affari la Francia continua a farli con il regime di Brazzaville. In quegli anni – dal Benin allo Zaire, passando per il Gabon e la Costa d’Avorio – le conferenze nazionali aperte agli oppositori hanno cercato di scrivere le regole per una politica multipartitica. Il successo, se così si può dire, è stato travolgente a Brazzaville. Un anno dopo la Conferenza, il 10 giugno 1991, il presidente Sassou Nguesso viene sconfitto da Pascal Lissouba alle elezioni. Ancora oggi, questo è l’unico esempio di alternanza in Centrafrica, a parte il compromesso politico che ha portato al passaggio di potere tra Joseph Kabila e Feliz Tshisekedi nella Repubblica democratica del Congo nel gennaio del 2019. In quegli anni, però, non andò così bene nello Zaire (ora Rdc) quando al potere c’era Mobutu Sese Seko. Anche a lui le potenze internazionali chiesero, in cambio del loro sostegno, di applicare il multipartitismo. Lui non fece un plissé, spacchettò il suo partito e annunciò al mondo che lo Zaire era diventato un paese democratico. Le potenze internazionali non si misero certo a discutere e diedero il loro appoggio al leopardo di Kinshasa che portò il paese nel baratro.
Per tornare alla vicina Repubblica del Congo – le due capitali si guardano dalle sponde del fiume Congo – trent’anni e quattro guerre civili dopo, il presidente Denis Sassou Nguesso, 77 anni, di cui 37 al potere, è stato rieletto a marzo per un quarto mandato con oltre l’88 per cento dei voti. Suo figlio nominato ministro. Anche Sassou Nguesso sta cercando di tramandare il potere, come se governasse un vero regno.
Il principale partito di opposizione ha boicottato le elezioni del 21 marzo, denunciandone le condizioni organizzative a dir poco precarie. Guy-Brice Parfait Koleas è stato accreditato del 7,84 per cento dei voti, ma il giorno dopo le elezioni è morto di covid. Gli oppositori delle precedenti elezioni presidenziali, quelle del 2016 – Jean-Marie Michel Mokoko e André Okombi Salissa – sono in carcere, condannati a 20 anni per “minaccia alla sicurezza dello Stato”. Denis Sassou Nguesso non fa altro che decapitare l’opposizione per garantirsi il potere e lo spirito della “conferenza nazionale” aleggia solo sulle acque del Grande Fiume, ma non riesce a toccare terra.
Speranze deluse, dunque. La promozione della democrazia, la lotta alla corruzione, la riconciliazione nazionale erano, tra gli altri, i valori sostenuti dalla conferenza nazionale. Clement Miérassa, 72 anni, economista e fondatore del Partito socialdemocratico congolese (Psdc) ha fatto parte del governo di transizione – 1991-1992 – il cui primo ministro, André Milongo, aveva anche le competenze di capo dello Stato, spiega che oggi il Congo è classificato come uno dei paesi più corrotti al mondo, ed è nella top-ten di quelli dell’Africa. Non è un caso che in Francia siano state aperte inchieste sui beni “mal acquisiti” proprio nei confronti della famiglia presidenziale.
All’epoca la “conferenza nazionale” aveva suscitato molte speranze nella popolazione perché intendeva liberare il Congo da tutti i suoi vecchi demoni: tribalismo, clanismo, favoritismi, clientelismo e soprattutto la violenza eretta ad arte della politica. Non è cambiato nulla. Dall’indipendenza in poi, il Congo ha registrato almeno quattro guerre civili – con conseguenti colpi di stato – compresa quella del 1997 che ha permesso a Denis Sassou Nguesso di riprendersi il potere. Non vi è alcun dubbio che la storia politica del paese, dall’indipendenza in poi, non è stata altro che un susseguirsi di violenze. E se non sono le guerre, sono i soprusi del regime a danno di tutti coloro che cercano di manifestare un qualche dissenso. Non si può essere in disaccordo con il padrone del Paese. Nel suo ultimo discorso di insediamento, il presidente Sassou Nguesso ha parlato di “rottura con mentalità devianti e comportamenti perversi del passato”, tra cui “corruzione, frode, nepotismo e tendenza alla cattiva gestione”. Sembra un atto di accusa contro sé stesso. Davvero poco credibile anche perché i tentacoli della famiglia presidenziale sono un po’ ovunque.
Altrove in Africa, le “conferenze nazionali” hanno avuto vari gradi di successo, dagli avvicendamenti in Benin al mantenimento della famiglia Bongo al potere in Gabon, passando per episodi di violenza in Costa d’Avorio e nella Repubblica democratica del Congo. Quanto al presidente Denis Sassou Nguesso, i suoi omologhi di Guinea e Costa d’Avorio ora lo chiamano “l’imperatore”. Significativo e sconcertante.
(Angelo Ravasi)