Dopo il Burundi e il Sudafrica, anche il Gambia ha annunciato di voler uscire dalla Corte penale internazionale (Cpi). Ufficialmente il governo gambiano accusa il tribunale di non essere equo e di perseguire solo i capi di Stato africani. Nella realtà Yahya Jammeh, come anche Pierre Nkurunziza, teme l’apertura di indagini a suo carico con il rischio di essere incriminato per reati gravissimi. La sua condotta potrebbe infatti giustificare l’accusa di violazione dei diritti umani e crimini contro l’umanità. Se il Gambia e il Burundi sono due piccoli Stati, il Sudafrica è invece una nazione di grande rilevanza nel continente. In questo caso, i politici sudafricani non corrono il rischio di essere incriminati, ma la leadership di Pretoria non vuole essere costretta dalla Cpi a perseguire i propri alleati. Come successo lo scorso anno con il Presidente sudanese Omar al Bashir. Incriminato dalla Corte, non è stato arrestato mentre era in visita a Pretoria.
Se ciò è vero, non si può però dire che i Presidenti africani abbiano tutti i torti quando accusano la Corte di perseguire i capi di Stato africani. Nata nel 2002, dopo che lo Statuto di Roma che ne prevedeva l’istituzione è stato ratificato da 123 Paesi, ha visto salire sul banco degli imputati solo politici africani. Il ministro gambiano dell’Informazione Sherif Bojang ha quindi avuto buon gioco ad accusare accusato la Corte di aver ignorato i crimini di guerra occidentali. Ha detto che la Cpi, per esempio, non è riuscita a incriminare l’ex primo ministro britannico Tony Blair per l’intervento militare in Iraq. E ha aggiunto: «La Corte penale internazionale persegue e umilia solo la gente di colore, soprattutto gli africani».
La lista di Paesi che vogliono lasciare la Corte si potrebbe allungare perché anche il Kenya e la Namibia hanno fatto capire che potrebbero abbandonare. È la fine della giustizia internazionale in Africa?