L’Africa rivuole i patrimoni trafugati ai tempi delle colonie

di claudia

di Uoldelul Chelati Dirar

Di qua e di là dal Mediterraneo, periodicamente si rianima il dibattito sul ritorno dei beni culturali rubati all’Africa in epoca coloniale. Quasi vent’anni fa l’Italia restituiva – atto comunque dovuto – la stele di Axum che si ergeva in piena Roma. Fu vera restituzione?

Il 18 aprile 2005, dall’aeroporto di Pratica di Mare partiva per fare ritorno ad Axum (Etiopia) il primo dei cinque blocchi di pietra che costituivano la stele fino a quel momento collocata in piazza di Porta Capena, a Roma, di fronte alla sede della Fao (un tempo sede del Ministero delle Colonie). La restituzione di questo monumento rappresentava l’adempimento, tardivo, di un impegno preso con l’accordo di pace del 10 febbraio 1947, successivamente ratificato nel 1956 con l’Accordo Italo-Etiopico in materia di compensazione dei danni di guerra. La stele di Axum, risalente al IV secolo d.C., era stata trafugata dal governo fascista nel 1937 e trasferita a Roma con grande fanfara mediatica.

Nella prospettiva fascista, il furto della stele intendeva porre il regime in continuità ideale con la tradizione imperiale romana che praticava il saccheggio dei monumenti come uno dei modi per affermare il proprio trionfo su civiltà rivali. Ne sono testimonianza gli obelischi egiziani trafugati e trasportati a Roma in età augustea. Inconsapevolmente, con questo trafugamento il fascismo innescava una curiosa contraddizione in quanto, implicitamente, riconosceva alla civiltà etiopica uno status comparabile a quello delle altri grandi civiltà antiche, nello stesso momento in cui la propaganda del regime descriveva le popolazioni colonizzate come inferiori e barbare. La vicenda della stele di Axum offre quindi una preziosa opportunità di riflessione sull’approccio italiano alla questione della restituzione dei beni culturali.

Sulla scena internazionale, il dibattito su questo tema aveva ricevuto un forte impulso, già nell’immediato dopoguerra, in relazione alla tragedia dell’Olocausto. Un aspetto significativo del dibattito è stato che le controversie sui beni sottratti alle comunità ebraiche europee non sono mai state formulate esclusivamente come una questione di eredità, quanto piuttosto in riferimento al futuro stesso della comunità ebraica, evidenziando così l’importanza di questi manufatti per la continuità della vita culturale e spirituale del popolo ebraico. Ci è voluto tempo perché questo dibattito uscisse dalla prospettiva eurocentrica in cui era stato formulato e prendesse in considerazione anche i saccheggi coloniali.

È un dato che i più importanti manufatti del patrimonio culturale africano si trovino tuttora custoditi nei musei e nelle collezioni private europee. Questo pone un grosso interrogativo, al tempo stesso etico e culturale, che segna la discussione tra studiosi, attivisti e esponenti del mondo politico. Sul piano etico, viene messa in discussione la liceità del sistematico trafugamento del patrimonio culturale africano operato in età coloniale e si invita a valutare l’opportunità di una sua restituzione. Sul piano culturale, ci si interroga su come il trasferimento di questi manufatti nei musei europei ne abbia modificato il valore originario di strumenti di comunicazione culturale e spirituale. La loro trasformazione in icone ne ha, forse, garantito la conservazione, ma ne ha azzerato la funzione sociale originaria. Nati per parlare a popolazioni con cui condividevano un linguaggio, questi medium culturali giacciono muti, privati della loro ricchezza semantica. Si pensi alle tante maschere rituali, ai bronzi di Ife e Benin o ai testi religiosi in lingua ge’ez. Implicitamente, questo pone la questione dell’adeguatezza di una restituzione che sia solo un trasferimento da un museo europeo a un museo africano.

Tuttavia, se la restituzione sembra essere la soluzione ormai prevalente, rimane legittimo chiedersi se questa sia necessariamente una riparazione. Il caso della stele di Axum offre un esempio emblematico. A quasi vent’anni dalla sua restituzione, vi sono importanti settori del mondo politico italiano che ancora ne criticano la legittimità, sostenendo che non si trattò di un saccheggio bensì del legittimo e consensuale trasferimento di un monumento. In alternativa, vi è chi sostiene che la stele di Axum sarebbe dovuta rimanere di proprietà italiana a parziale “compensazione” per le infrastrutture realizzate dal colonialismo italiano e “cedute gratuitamente” ai governi delle ex-colonie. Il sottotesto che unisce queste argomentazioni è comunque quello del diritto dell’Italia a mantenere il possesso della stele in virtù di una presunta superiorità culturale sull’Etiopia.

La restituzione della stele, più che una riparazione derivante da un processo consapevole di riflessione sulla storia, sembra essersi ridotta a una frettolosa operazione politica. Lo testimonia il vuoto silenzioso che riempie lo spazio dove prima sorgeva la stele, a Roma. Nessuna traccia del suo lungo soggiorno, nessuna indicazione che trasmetta memoria di ciò che è successo e del suo significato per le storie interconnesse dell’Etiopia e dell’Italia. In altre parole: una rimozione.

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