di Andrea Spinelli Barrile
Il continente affronta i tagli americani cercando soluzioni per rafforzare l’autosufficienza sanitaria. Alla Conferenza Ahaic di Kigali, governi e organizzazioni esplorano finanziamenti interni e nuove partnership, mentre altri attori globali si preparano ad aumentare il loro supporto.
Mentre l’Africa cerca di superare lo shock che i tagli a Usaid da parte dell’amministrazione Trump potrebbero causare nelle economie interne, in particolare nel settore sanitario, governi, partner e organizzazioni non governative africane si stanno incontrando in Ruanda per la Conferenza internazionale sull’agenda sanitaria per l’Africa (Ahaic), la più grande conferenza sulla salute e lo sviluppo in Africa, che si tiene ogni due anni.
La Conferenza, convocata a Kigali da Amref health Africa, dal ministero della Salute del Ruanda, dall’Organizzazione mondiale della sanità per l’Africa (Oms Afro) e dall’Africa centre for disease control (Africa Cdc), si è aperta il 2 marzo e andrà avanti fino a tutta la giornata del 5 marzo: secondo un comunicato stampa diffuso dagli organizzatori, l’obiettivo primario è cercare “di riconsiderare i modi per raccogliere fondi per la risposta sanitaria nel continente”. Sebbene i leader dei vari enti sanitari africani abbiano espresso incertezza sulle condizioni dei sistemi sanitari dopo i tagli ai finanziamenti americani, durante una tavola rotonda organizzata nel primo giorno della conferenzasi sono anche dimostrati ottimisti sul fatto che i governi africani possano assorbire gli shock e lavorare insieme per proteggere i loro cittadini e le comunità locali da tutte le emergenze che i tagli a Usaid comporteranno.
Il punto su cui sembrano tutti concordi è uno: nel 2025 comincia una nuova era, almeno per quanto riguarda il finanziamento dei sistemi sanitari africani, e visto il tenore della conferenza e i toni usati dai relatori, tutto lascia pensare che, in Africa, su tutto si ragiona tranne su un possibile ripensamento da parte dell’amministrazione Trump. Il direttore regionale ad interim dell’Oms per l’Africa, Chikwe Ihekweazu, durante un intervento domenica ha rassicurato sull’impegno dell’Organizzazione a collaborare con i governi africani “per colmare le lacune nei finanziamenti”, in particolare nei settori precedentemente supportati da Usaid e altri donatori statunitensi, ricordando loro lo scopo per cui l’Oms è stata fondata, ma ha sottolineato la necessità che i governi si uniscano e collaborino. Anche perché questo futuro è qui e ora. Claudia Shilumani, direttrice delle relazioni esterne e della gestione strategica presso l’Africa Cdc, ha invitato i leader del continente ad affermare “la propria sovranità sanitaria”, sottolineando che l’autosufficienza è fondamentale per garantire il futuro sanitario del continente e indicando il Ruanda come Paese leader nell’esplorazione di soluzioni di finanziamento sanitario interno.

I numeri di Usaid
La perdita maggiore per l’Africa sotto l’ombrello Usaid sarà il finanziamento per Pepfar, che viene utilizzato per programmi correlati alla lotta contro l’Hiv, tra cui prevenzione, test e trattamento. Attraverso Pepfar, il governo degli Stati Uniti ha investito oltre 110 miliardi di dollari, dal 2003, nella risposta globale all’Hiv/Aids. Ma, anche qui, guardare solo al Pepfar può essere fuorviante perchè da collegare necessariamente a Usaid ci sono gli anche i cosiddetti “effetti farfalla”: come ricorda su The Conversation Catherine Kyobutungi, direttrice esecutiva dell’African population and health research centre, “gli aiuti allo sviluppo degli Stati Uniti vengono utilizzati per gestire programmi sanitari su larga scala nel continente”: ad esempio, Kyobutungi cita la Nigeria, che solo nel 2023 ha ricevuto circa 600 milioni di dollari in assistenza sanitaria da Washington, oltre il 21% del bilancio sanitario nigeriano. E non bisogna anche dimenticare che gli Stati Uniti sono anche il principale donatore dell’Oms, contribuendo al 18% del bilancio dell’Organizzazione.
Attualmente i principali otto beneficiari degli aiuti Usaid in Africa sono, nell’ordine: Nigeria, Mozambico, Tanzania, Uganda, Sudafrica, Kenya, Zambia e Repubblica Democratica del Congo. Significa che già nel 2025 non meno di 649,2 milioni di persone potrebbero subire le ripercussioni dei tagli a Usaid, con effetti diretti sulla loro salute. O meglio, sulla loro capacità di curarsi: l’incapacità di prevenire nuove infezioni e la minaccia di sviluppare una resistenza ai farmaci a causa di un trattamento interrotto avranno conseguenze di vasta portata. Se prendiamo ad esempio l’Uganda, il cui programma anti-Hiv è finanziato per il 60% dal Pepfar, per il 20% dal Fondo globale (finanziato da Pepfar) e per un restante 10% dal governo nazionale, gli effetti del blocco di Usaid potrebbero essere devastanti sulla cura ma anche e soprattutto sulla prevenzione: la stima è che il Pepfar, con i suoi programmi anti-Hiv, abbia contribuito a salvare almeno 26 milioni di vite nel mondo. Secondo una recente dichiarazione pubblica di Linda-Gail Bekker, direttrice della Fondazione Desmond Tutu Hiv, i tagli ai finanziamenti Usaid ai programmi anti-Hiv potrebbero causare oltre mezzo milione di morti nei prossimi 10 anni solo in Sudafrica, dove circa il 13% della popolazione, ovvero 7,8 milioni di persone, è sieropositiva, uno dei tassi di Hiv più alti al mondo.
Domenica, alla conferenza di Kigali, l’amministratore di Amref health Africa Githinji Gitahi ha ricordato ai presenti la necessità di riconsiderare gli investimenti in ambito sanitario per “costruire sistemi sanitari resilienti e sostenibili”, aggiungendo che i finanziamenti dei donatori “non sono un diritto”, e questo è ovvio, e che i singoli paesi sono liberi di “rivedere le proprie politiche e priorità di finanziamento”, e questo è invece vero. Il problema sono gli effetti: “L’Africa subsahariana, a differenza di altre parti del mondo, ha il più grande carico di malattie infettive, e tuttavia ora abbiamo una sfida unica: mentre queste malattie sono qui con noi, abbiamo barriere crescenti di malattie non trasmissibili allo stesso tempo, il che significa che i sistemi sanitari che abbiamo oggi, non saranno i sistemi sanitari di cui avremo bisogno domani, perché richiedono una mentalità completamente diversa, sebbene con le stesse fondamenta dell’assistenza sanitaria primaria” ha detto Gitahi. Amref health Africa ha detto di stare adottando misure per garantire la continuità dei servizi sanitari essenziali ma visti i numeri si tratta di goccioline essenziali versate in un mare in tempesta: nonostante l’interruzione dei finanziamenti, circa l’80% delle attività di Amref in Africa, per un valore di oltre 200 milioni di dollari, prosegue grazie alla diversificazione delle risorse, ma è anche vero che alcuni programmi sono stati sospesi o cancellati, evidenziando la necessità di costruire economie sostenibili e di rafforzare i sistemi sanitari africani per ridurre la dipendenza dagli aiuti esteri.

Come finanziare la salute pubblica?
Alla conferenza di Kigali, Claudia Shilumani, direttrice delle relazioni esterne e della gestione strategica presso l’Africa Cdc, ha elogiato la leadership ruandese nell’esplorazione di soluzioni di finanziamento sanitario interno, spiegando che stanno facendo passi importanti verso la riduzione della dipendenza dagli aiuti esteri: “Se diamo priorità all’autosufficienza nell’assistenza sanitaria, sviluppando, producendo e distribuendo i nostri vaccini, medicinali e tecnologie mediche, il Centro reggerà. Dobbiamo anche investire in una solida forza lavoro sanitaria africana per portare avanti questa visione”. La ricetta di Shilumani si basa su tre pilastri, ovvero “soluzioni nazionali, mobilitazione delle risorse nazionali e partnership pubblico-private innovative”.
Il tema però si scontra con la realtà di un continente, l’Africa, in cui aumentare la pressione fiscale per mobilitare più risorse a protezione dei sistemi sanitari rischia di trasformarsi , se va bene, in un boomerang per i governi, soprattutto in Paesi come Nigeria o Kenya, ma anche Sudafrica, Uganda e Mozambico, dove la pressione sociale sui governi locali è già abbastanza forte e proprio per via di possibili aumenti delle tasse.
Il primo passo, per Gitahi di Amref, è rimodulare la spesa: “Per decenni abbiamo chiesto di dare priorità all’assistenza sanitaria primaria, come delineato nella Dichiarazione di Alma-Ata del 1978. Eppure, continuiamo a lavare i pavimenti invece di riparare il rubinetto che perde. Se vogliamo sistemi sanitari sostenibili, dobbiamo reindirizzare gli investimenti verso l’assistenza sanitaria primaria, dove l’80% della nostra popolazione cerca assistenza”: acqua pulita, servizi igienici, sicurezza alimentare e vaccinazioni dovrebbero essere i capisaldi di questa rimodulazione.
Oltre gli USA, chi sono gli altri donatori?
I principali donatori internazionali che sostengono i sistemi sanitari africani sono le organizzazioni multilaterali e le istituzioni finanziarie globali, come la Banca mondiale il Fondo monetario internazionale e l’Unione africana, con l’Africa Cdc. Tra i fondi globali per la salute, vale la pena citare invece il Fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria, che fornisce finanziamenti ai Paesi africani per la lotta contro queste malattie e che 2022 ha raccolto oltre 15 miliardi di dollari per il suo ciclo di finanziamenti 2023-2025, la Gavi, the vaccine alliance, che supporta la vaccinazione infantile in molti paesi africani, con programmi contro la polio e il Covid, e la Coalition for epidemic preparedness innovations (Cepi), che finanzia lo sviluppo di vaccini per malattie emergenti.
E poi ci sono i singoli Paesi: l’Unione europea, attraverso il programma Global Gateway, investe in infrastrutture sanitarie e programmi di sviluppo e lo stesso fanno il Regno Unito, attraverso il Foreign, commonwealth & development office (Fcdo) e il Wellcome Trust, con cui finanzia ricerca e assistenza sanitaria, la Germania, che fornisce supporto sanitario attraverso la Giz e la Kfw development bank, la Francia, che attraverso l’Agence française de développement (Afd) finanzia progetti sanitari in Africa francofona, e la Cina, che contribuisce con ospedali, formazione medica e missioni sanitarie, specialmente in paesi con forti legami economici.
Alcuni governi africani stanno inoltre aumentando il proprio contributo ai sistemi sanitari attraverso i fondi sanitari nazionali (come il Nhif in Kenya e Ghana), e le cosiddette “tasse innovative” su transazioni finanziarie o telecomunicazioni per finanziare la sanità.
Nel mondo multipolare dove tutto cambia rendendo gli equilibri globali decisamente difformi da quelli che conosciamo in Europa, e a cui complice anche un drammatico dato demografico facciamo fatica anche solo a guardare, c’è anche da considerare un aspetto fondamentale: laddove si creano vuoti c’è sempre qualcuno pronto a colmarli.
Nel prossimo triennio, la Cina ha annunciato finanziamenti per oltre 50 miliardi di dollari destinati “a progetti di sviluppo in Africa”: sebbene non sia specificato quanto di questo importo sia destinato esclusivamente al settore sanitario, una parte significativa è indirizzata al miglioramento delle infrastrutture sanitarie. Sulla costruzione di ospedali e sulla formazione medica Pechino è già attiva con la propria cooperazione allo sviluppo e, soprattutto, con le proprie aziende. Lo stesso vale per le aziende turche, che negli anni hanno aumentato significativamente la loro presenza in Africa attraverso investimenti diretti esteri. Le cifre esatte nel settore sanitario non siano chiare, ma la crescente presenza turca indica un interesse notevole nel continente, dove la Turchia vanta già strutture sanitarie di eccellenza, come l’Ospedale Recep Tayyip Erdoğan di Mogadiscio, in Somalia, uno degli ospedali più grandi e moderni del paese e di tutto il continente. Inoltre, attraverso l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika), la Turchia ha avviato programmi di formazione per il personale sanitario africano e ha fornito attrezzature mediche a diversi paesi partner.
Modalità simili sono messe in campo anche da Paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar, che hanno istituito fondi per sostenere progetti di sviluppo in Africa, inclusi progetti nel settore sanitario.