L’Africa tra crisi e opportunità con la fine dell’era degli aiuti

di claudia

di Stefano Pancera

L’era post-Guerra Fredda degli aiuti occidentali all’Africa è finita. Mentre le economie del continente cercano di emanciparsi dalla dipendenza finanziaria, emergono nuovi modelli di sviluppo.

“L’Africa non può più aspettare la carità: serve un nuovo modello di cooperazione”. Abiy Ahmed, primo ministro etiope e Premio Nobel per la Pace 2019, lo aveva pronosticato già nel 2023, durante un vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba.

Oggi, quelle parole risuonano come un monito. L’era post-Guerra Fredda degli aiuti occidentali all’Africa è finita. La chiusura dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) è solo l’esempio più drammatico dei recenti tagli. Regno Unito, Francia e Germania, tra gli altri, stanno riducendo i fondi.
Nel 2024, il bilancio previsto per gli aiuti esteri statunitensi ammontava a 41 miliardi di dollari, di cui 12,7 miliardi erano destinati direttamente all’Africa subsahariana.

Praticamente tutti questi aiuti sono destinati a sparire sulla scia delle decisioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. A Washington sono numeri su un foglio di calcolo; in Africa, sono vite in gioco. Ma, tra i tanti dati snocciolati in questi giorni, vale la pena ricordare un aneddoto.
La scorsa settimana, il CEO di una grande azienda americana che produce sacchetti di burro di arachidi fortificato per bambini malnutriti ha dichiarato alla CNN che l’USAID aveva annullato tutti i contratti della sua società. La Casa Bianca ha prontamente replicato che si era trattato di un errore, annunciando il ripristino degli accordi. Peccato, però, che il personale incaricato della consegna non venga più pagato dall’USAID: il cibo non raggiungerà mai quei bambini. Ogni sacchetto era etichettato “Dal popolo americano”. Sarebbe stato meglio che su quei sacchetti mai spediti non ci fosse stata alcuna scritta.

Donald Trump

“Porre fine alla dipendenza dai donatori stranieri non solo condurrebbe alla prosperità, ma anche al rispetto per la nostra nazione”, sosteneva Nana Akufo-Addo, allora presidente del Ghana, quando nel 2017 lanciò la politica “Ghana oltre gli aiuti”.

Paul Kagame, presidente del Ruanda, utilizza spesso il termine «mindset» (mentalità). “È ora di liberarci dalle basse aspettative che ci sono state attribuite e che abbiamo accettato”, ha dichiarato.
January Yusuf Makamba, ex-ministro degli esteri della Tanzania, ha parlato qualche giorno fa di un cambiamento di paradigma: “Gli africani non sono contrari: abbiamo sempre voluto dipendere meno dagli altri”. W. Gyude Moore, ex ministro liberiano, aggiunge: “Più un paese è piccolo e povero, più questa dipendenza è umiliante”.

Jito Kayumba, consigliere del presidente dello Zambia, ritiene che i tagli agli aiuti possano spingere i governi africani a spendere in modo più oculato. “Sono un’opportunità per costruire capacità autonome, questione di sovranità e indipendenza economica”, sostiene.
Questi leader africani non sono i soli a vedere nel volgare brutalismo trumpiano un’opportunità per liberarsi da una dipendenza che ha distorto le politiche nazionali e minato l’autostima. Tuttavia, nei prossimi anni, i tagli agli aiuti causeranno danni enormi.

Paul Kagame
Paul Kagame

Célestin Monga, economista camerunese, professore ad Harvard ed ex vicepresidente della Banca Africana di Sviluppo, ritiene che il congelamento dei finanziamenti statunitensi alla fine possa rivelarsi vantaggioso. “Donald Trump aveva ampiamente annunciato le sue intenzioni sin dall’inizio. Ma attenzione, il sostegno americano all’Africa è cinque volte inferiore al capitale illecito che lascia il continente ogni anno: questo è il vero problema”, precisa.

L’Africa genera 610 miliardi di dollari all’anno dalle esportazioni, ma gran parte di questa somma non rimane nel continente. In teoria, quei fondi dovrebbero finanziare sviluppo locale, infrastrutture, sanità, istruzione e lavoro. In pratica, però, una quota significativa – sottolinea Monga – sfugge al controllo africano. “È così che si promuove un’industria della miseria e della carità. I paesi africani offrono poche strategie di trasformazione credibili, attirando pochi finanziamenti”.

Sebbene meno aiuti possano teoricamente spingere alcuni leader a essere più responsabili, il rischio è di cadere in un “ottimismo ingenuo”. I tagli subiti non trasformeranno magicamente le istituzioni.
Mentre Trump “mani di forbice” taglia i fondi e snobba il continente, le grandi aziende americane vanno controcorrente e continuano ad investire, a tenere in grande considerazione l’Africa.

Il recente rapporto Africa Outlook 2025, pubblicato dall’Economist Intelligence Unit (gruppo editoriale di The Economist), colloca 12 paesi africani nella top 20 degli Stati a più rapida crescita al mondo.
Zipline, società statunitense di logistica aerospaziale specializzata in droni e sostenuta da Goldman Sachs e Sequoia Capital, ha annunciato nuovi piani di espansione in Nigeria. L’azienda ha già dimostrato il suo impatto positivo nel continente: in Rwanda, ad esempio, ha ridotto del 67% lo spreco di prodotti ematici, mentre in Ghana ha diminuito del 60% le interruzioni nelle forniture di vaccini.

Nel settore del venture capital, Endeavor Catalyst – con sede a New York e oltre mezzo miliardo di dollari di attività – prevede di aumentare gli investimenti in Africa nel prossimo semestre, puntando a raddoppiare la quota di startup africane nel suo portafoglio nonostante il rallentamento degli accordi sul continente. Lo scorso anno, l’azienda ha finanziato Zededa, startup marocchina di intelligenza artificiale. “Faremo molti più investimenti qui perché è da qui che verrà la crescita”, ha dichiarato Allen Taylor, partner fondatore di Endeavor Catalyst, durante una visita in Nigeria.

Microsoft, dal canto suo, ha annunciato un impegno di 300 milioni di dollari entro il 2027 per espandere le infrastrutture cloud e di intelligenza artificiale in Sudafrica, rispondendo alla domanda crescente di servizi Azure nella regione. La cifra si aggiunge agli 1,1 miliardi già investiti nella costruzione di data center a Johannesburg e Città del Capo, nell’ambito della corsa al potenziamento dell’IA. Parallelamente, il colosso tecnologico formerà 50.000 persone in competenze strategiche come cloud computing, sicurezza informatica e IA, consolidando il ruolo del Sudafrica come hub africano dell’azienda. Non a caso, un rapporto McKinsey stima che il mercato fintech africano potrebbe raggiungere i 65 miliardi di dollari entro il 2025.

Analogamente per Netflix dal 2016 a oggi, gli investimenti nel continente sono cresciuti in modo significativo, con un’impennata particolare tra il 2021 e il 2024: ben 220 milioni di dollari sono stati destinati a mercati chiave come Sudafrica, Kenya e Nigeria. Un impegno che ha già prodotto risultati tangibili: oltre 12.000 posti di lavoro creati tra produzione, post-produzione e servizi correlati. ll Sudafrica si conferma il fulcro delle operazioni di Netflix in Africa, con un catalogo che include oltre 170 tra film, serie e documentari.
Infine in ambito sanitario, Roche si è impegnata ad ampliare l’accesso ai test diagnostici in Africa, con l’obiettivo di effettuare oltre 3,4 miliardi di test entro il 2031 e garantire diagnosi accurate a più di 500 milioni di persone.

Certo, non sarà un processo che si compirà dall’oggi al domani. Ma mentre il cowboy di Washington gioca al tira e molla sui dazi, la Cina sta progressivamente occupando gli spazi lasciati vuoti dal ritiro statunitense nella governance globale.
Dal 2018, con la creazione di China Aid – istituita come contraltare strategico a USAID – Pechino ha avviato una silenziosa riconfigurazione del proprio ruolo internazionale. Sebbene il modello cinese di “aiuto allo sviluppo”, basato su investimenti infrastrutturali e partnership commerciali anziché su donazioni tradizionali, differisca radicalmente dall’approccio occidentale, la sua influenza si estende ormai a tutti i principali forum multilaterali. L’arroganza del disimpegno e lo stile grezzo di Trump verranno sfruttati da Xi Jinping?

Resilienza non significa autosufficienza magica. Lo tsunami Trump ha scoperchiato un vaso di Pandora. Per l’Africa, però, è anche l’alba di un esperimento senza precedenti: trasformare la crisi in un laboratorio di sovranità.

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