(reportage dal numero 1/2020 di Africa)
In Malawi, migliaia di ettari fertili sono impiegati per piantagioni di colture destinate all’export, che arricchiscono pochi e impoveriscono il suolo. Mentre i contadini poveri non possono accedere alle terre incolte
In agosto fa giorno molto presto nelle campagne di Thyolo, nel sud del Malawi. Alle prime luci dell’alba, canti lontani squarciano il silenzio. Sono le voci di uomini e donne, giovani e anziani, che si avviano con passo affrettato al loro posto di lavoro, camminando scalzi e intirizziti in fila indiana, portando enormi cesti sulle spalle. La fredda brezza della notte soffia ancora tra i rami delle piante del tè allineate in file strette e poco a poco il sole tinge le foglie di un verde sempre più intenso.
Mr. Augustin non mi guarda negli occhi mentre parla, ma so che non mente quando mi racconta cosa significhi lavorare nelle piantagioni: «È un mestiere estenuante, che richiede forza fisica e precisione per raggiungere l’obiettivo quotidiano imposto dall’azienda. Ogni chilo in più raccolto costituisce denaro extra per noi e per le nostre famiglie».
Si calca con le mani piene di calli il cappello di tela sul capo per proteggersi dai raggi infuocati e confessa: «Nelle piantagioni, il vero nemico non è il sole in estate, né il peso che portiamo sulle spalle, né il ritmo del lavoro: il vero pericolo è lo njoka (il serpente). Se ti morde, sei morto… e nessuno ci fornisce stivali o vestiti per proteggerci».
Sotto ricatto
Il Malawi è una piccola e povera nazione dell’Africa australe, colonia britannica fino al 1964, anno in cui ottenne l’indipendenza. È un Paese fertile, dove l’agricoltura costituisce il settore economico principale: l’85% delle famiglie si dedica al lavoro dei campi. La ricchezza del suolo, l’abbondanza d’acqua (il Lago Malawi è il terzo lago più grande del continente) e l’abbondante disponibilità di manodopera giovane sono tutti elementi che dovrebbero far volare il settore primario. In realtà la situazione ha più ombre che luci.
Il mais occupa il 68% del terreno coltivabile, il resto è coperto da colture per l’export: tè, tabacco, zucchero, cotone e caffè. Gran parte delle piantagioni appartiene a ricchi proprietari o aziende straniere. I braccianti stagionali sono malpagati. E le condizioni di lavoro peggiorano quando i prezzi dei prodotti sui mercati globali scendono. I piccoli appezzamenti sono usati come orti famigliari: agricoltura di sussistenza che a fatica permette di sfamare la popolazione.
Nelle piantagioni di tè, Augustin e i suoi colleghi lavorano sei giorni a settimana per un totale di circa 48 ore, più gli straordinari che consentono di arrotondare il magro stipendio mensile di circa 30.000 kwatcha (35 euro). Passata la stagione del raccolto, molti di loro sono obbligati ad accettare precari lavoretti mal pagati per sfamare le loro famiglie. «Non abbiamo il diritto di ammalarci. Se restiamo a casa dal lavoro per più di quattro giorni, l’azienda può licenziarci — prosegue Augustin –. E comunque, a partire dal quarto giorno le malattie non vengono pagate».
Vittime dello sfruttamento
Il suo non è un caso isolato: l’industria del tè ingaggia cinquantamila lavoratori stagionali al picco della produzione, da ottobre ad aprile. Sono uomini e donne di bassa estrazione sociale, spesso senza istruzione, con famiglie di 12-15 membri a carico, proprio come Augustin. Anche caffè, tabacco, zucchero e cotone richiedono la manodopera di migliaia di persone. Gli stipendi bassi e la quasi totale mancanza di protezione dei diritti sindacali mantengono la popolazione dedita all’agricoltura in uno stato di precarietà economica, vulnerabilità ed esclusione sociale.
Il circolo della povertà trova nel sistema di produzione agricola di stampo coloniale una delle sue cause principali. E, come spesso accade, sono le donne le prime vittime dello sfruttamento. Malgrado il loro ruolo cruciale nelle società rurali, le malawiane nelle piantagioni guadagnano molto meno dei loro colleghi. Sono inoltre più esposte a ricatti, molestie e abusi, come conferma l’ong Oxfam, che ha denunciato decine di casi di violenza e abuso di genere sul posto di lavoro.
In un Paese in cui si registra un tasso di scolarizzazione femminile nettamente più basso di quello maschile e in cui l’assistenza sanitaria e la maternità non sono diritti garantiti, il sistema produttivo agricolo controllato dai grandi capitali non fa che rendere ancor più gravosa la vita delle donne.
Terra proibita
La popolazione, nel suo complesso, è vittima di un paradosso: la maggior parte delle terre appartiene a imprese private che da anni monopolizzano il settore agricolo, mentre la disponibilità di terre coltivabili per l’autosussistenza diminuisce costantemente, specialmente nel sud dove si concentrano le piantagioni di tè, rendendo sempre più fragili le economie famigliari e sempre più poveri i terreni: la monocoltura tende a impoverire il suolo. Inoltre le grandi compagnie private utilizzano enormi quantità di fertilizzanti chimici che avvelenano i campi.
Risultato: dopo anni di sfruttamento intensivo, centinaia di ettari vengono abbandonati perché ormai sterili. Sono vasti terreni che potrebbero essere concimati e sfruttati per soddisfare la domanda alimentare della popolazione in crescita, se non fosse che la legge lo vieta perché le aziende sono legalmente le titolari di questi lotti improduttivi e hanno dunque il pieno diritto di disporne. È evidente che impedire alla popolazione di usufruirne è un potente strumento per mantenere la forza lavoro in un perenne stato di vulnerabilità che induce i lavoratori e le lavoratrici ad accettare pessime condizioni e salari irrisori.
Accuse ai politici
Negli ultimi anni, però, specialmente nella regione meridionale, si è sviluppato un intenso dibattito che mette per la prima volta in discussione la supremazia assoluta dei proprietari del tè. A promuovere la campagna è la People’s Land Organization (Plo), nata da assemblee spontanee di agricoltori stanchi di subire ingiustizie e che rivendica la devoluzione delle terre improduttive alle comunità locali.
Malgrado le promesse, il governo ha adottato poche e timide iniziative in questo senso, compresa una riforma agraria e una serie di politiche strategiche sull’agricoltura e sull’irrigazione che hanno comunque lasciato gravi lacune. «I politici non affrontano il problema in modo incisivo a causa del loro tornaconto, poiché temono la reazione dei padroni delle piantagioni – accusa Precious Lester, segretario della Plo –. La presenza di terre incolte e inaccessibili è un tema importante che viene trascurato dal governo e dalla comunità internazionale perché va a toccare poteri forti, connivenze politiche e colossali interessi economici. In questo gioco corrotto, chi alla fine ne paga le conseguenze con la propria vita sono le comunità locali».
Siccità e cicloni
A peggiorare la situazione si aggiungono i disastrosi effetti del cambiamento climatico che stanno provocando frequenti, tragiche crisi umanitarie, e una insicurezza alimentare estrema, che obbliga il 70% della popolazione a vivere con meno di due dollari al giorno (la cosiddetta “soglia di povertà”). I lunghi periodi di siccità alternati a piogge violente ed estreme provocano shock meteorologici che costituiscono rischi fondamentali per l’esportazione di materie prime e per l’economia del Paese in generale.
Oggi più che mai, dopo il devastante passaggio del ciclone Idai che ha colpito la regione a marzo provocando danni incalcolabili, i pochi campi in mano alle comunità contadine e alle aziende agricole malawiane non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno alimentare di una popolazione in costante crescita: dai 3 milioni del 1964 ai 18 milioni del 2016. I cataclismi naturali dovrebbero essere eventi straordinari. Ma lo spettro della fame continua ad aleggiare. Non è più accettabile continuare ad affrontare il tema della fragilità alimentare ricorrendo sistematicamente agli appelli per gli aiuti umanitari. Occorrono investimenti a sostegno dell’agricoltura famigliare, delle cooperative agricole, delle numerose piccole realtà produttive legate al commercio equo e solidale. La diversificazione dei prodotti agricoli garantirebbe una migliore adattabilità agli shock meteorologici e aumenterebbe la sicurezza alimentare in un Paese dove oggi quasi cinque milioni di persone soffrono di denutrizione.
(testo di Martina Zingari – foto di Giovanni Diffidenti)