Di Valentina Giulia Milani e Marco Trovato
È la più importante economia dell’Africa, ma deve ancora superare le profonde diseguaglianze che lacerano la società. A farne le spese è anche una parte della popolazione bianca, impoverita e intimorita. Chi può emigra o si trincera in quartieri blindati dove persistono i privilegi ereditati dal passato. Ora le speranze sono risposte nel nuovo governo di unità nazionale. Le sfide cruciali: creare opportunità per i giovani e combattere corruzione e insicurezza.
I bambini si rincorrono sollevando polvere rossa e giocano con oggetti di fortuna trovati tra le baracche. Una donna li osserva, viso scavato e corpo fiaccato, seduta davanti alle lamiere della sua abitazione. A Munsieville, township nell’area di Krugersdorp, nella provincia del Gauteng, un’ora a nord-ovest di Johannesburg, il tempo scorre lento, affaticato dalle incombenze quotidiane degli abitanti, perlopiù biondi e occhi chiari, intenti a guadagnarsi almeno un pasto al giorno. Una frazione della popolazione bianca del Sudafrica vive infatti in una povertà simile a quella di molti abitanti delle township nere del Paese, città di lamiere arrugginite e vicoli di terra attraversati da rivoli maleodoranti. Circola poco cibo, scarseggiano l’acqua e l’elettricità. Le politiche volte a rimediare, in teoria, a decenni di disuguaglianza forzata sembrano non aver sortito l’effetto sperato, anzi: ai ghetti neri ereditati dal passato si sono aggiunti gli slum dei nuovi poveri, di ogni colore.
«Non c’è lavoro e l’aumento del costo della vita ci spinge a lottare ogni giorno per mettere assieme il pranzo con la cena», racconta un abitante di Munsieville spiegando che l’insediamento informale sorge su una ex discarica e che nel tempo vi si sono trasferite centinaia di famiglie afrikaner. «Un tempo era tutto diverso», ricorda con nostalgia. «Lo Stato aiutava i suoi cittadini, oggi ci sentiamo abbandonati». Il tempo che rimpiange è quello dell’apartheid (in afrikaans: letteralmente “separazione”), il regime segregazionista in vigore in Sudafrica dal 1948 al 1991. All’epoca, in effetti, chi apparteneva alla minoranza bianca poteva contare su privilegi e sussidi pubblici che gli garantivano una vita agiata o quantomeno dignitosa.
I principali ideologi dell’apartheid – Daniel François Malan, Johannes Gerhardus Strijdom e Hendrik Frensch Verwoerd – sostenevano di voler “far crescere in armonia” i vari gruppi etnici con le relative tradizioni; in realtà crearono uno Stato razzista con un’architettura legislativa e poliziesca ispirata dalla supremazia bianca volta a relegare la gran parte della popolazione nera o meticcia – a cui venivano negati i diritti civili fondamentali – ai margini della vita economica, sociale e politica. L’African National Congress (Anc), principale movimento di lotta contro la segregazione, diventato partito politico, uscito vincitore dalle prime elezioni libere nel 1994, ha dovuto affrontare problemi immani per cercare di annullare decenni di disuguaglianza razziale.
In campo economico ha introdotto leggi volte a promuovere l’occupazione dei neri, mirando a dar loro una quota maggiore nel mondo del lavoro. In campo sociale ha cercato di allargare le tutele, promuovere l’istruzione e realizzare un imponente piano di edilizia popolare volto a smantellare le township. Ma non tutto è andato per il verso giusto. La leadership politica che ha ereditato il potere da Nelson Mandela non è stata all’altezza delle sfide e ha progressivamente finito per tradire le ambizioni di riscatto della popolazione. Nel volgere di pochi anni si è passati dalla speranza della presidenza di Madiba alla delusione di Thabo Mbeki (incapace di promuovere uno sviluppo condiviso, è ricordato soprattutto per le sue controverse posizioni nei confronti dell’Aids), ai disastri di Jacob Zuma (travolto da scandali su appalti, tangenti e sottrazione di denaro pubblico).
L’attuale capo di Stato, Cyril Ramaphosa, 71 anni, insediatosi a giugno per un secondo mandato quinquennale, è ora chiamato a rimettere assieme i cocci. Compito per nulla facile. Oggi esistono due Sudafrica, che non sono più separati dal colore della pelle come ai tempi dell’apartheid ma da barriere sociali. Il malgoverno e i fallimenti inanellati negli ultimi vent’anni hanno eroso il consenso popolare di cui godeva l’African National Congress, che alle lezioni legislative dello scorso maggio ha perso per la prima volta la maggioranza assoluta in Parlamento, costringendola a formare un governo di coalizione di “unità nazionale”.

Nel nuovo esecutivo è entrata (assieme a cinque partiti minori, tra cui la formazione nazionalista zulu Inkhata freedom party), la Democratic Alliance (DA), l’Alleanza Democratica, secondo partito per numero di voti, di ispirazione liberale, sostenuto soprattutto dalla minoranza bianca. La buona notizia è che le due principali forze politiche hanno messo da parte le rivalità decennali per cercare di lavorare assieme, per provare a costruire realmente quel Paese che Nelson Mandela aveva sognato e per il quale aveva lottato. «Supereremo le differenze per risolvere i problemi comuni», ha promesso il segretario generale dell’Anc Fikile Mbalula. Il suo partito ha ottenuto venti ministeri su trentadue – tra cui finanze, energia, esteri, polizia e giustizia – mentre l’Alleanza Democratica si è aggiudicata sei ministeri chiave, tra cui ambiente, lavori pubblici, istruzione e agricoltura (quest’ultimo è guidato da John Steenhuisen, 48 anni, leader della DA). «L’African National Congress, dopo aver dilapidato il suo patrimonio di voti e aver preso coscienza degli errori commessi, è stata costretta a un bagno di umiltà, non facile e per nulla scontato», commenta la professoressa Cristiana Fiamingo, docente di storia e istituzioni dell’Africa all’Università degli Studi di Milano. «Questo governo di coalizione, che non ha precedenti nella storia della democrazia sudafricana, rappresenta per la sua leadership politica una sfida cruciale per la riconquista della fiducia dei cittadini, molti dei quali hanno disertato l’appuntamento con le urne.
Nel Paese permangono terribili diseguaglianze e inaccettabili ingiustizie che ricordano i tempi bui dell’apartheid. Larga parte della popolazione vive ghettizzata in aree povere e insicure. Le forze di governo hanno siglato un patto che per essere onorato richiederà di combattere la corruzione e di superare gli steccati ideologici per il bene comune». I nodi che dovranno sciogliere sono numerosi e insidiosi, soprattutto in campo economico e sociale. La Democratic Alliance chiede di tagliare burocrazia e assistenzialismo, vuole meno interventi dello Stato e più liberalizzazioni, mentre l’Anc difende le imprese pubbliche e ha promesso di allargare il welfare sanitario. «Non sarà facile far convivere queste anime tanto diverse, i governanti dovranno dimostrare capacità di ascolto, di mediazione, soprattutto dovranno dimostrare tanto buonsenso», commenta la Fiamingo.
In gioco c’è il destino di un Paese guida per l’intera Africa. «Nutro speranze, non certezze, sul successo di questo esperimento politico. Ma sono ottimista: un bel segnale arriva dalla nomina di ministri giovani e competenti. Inoltre l’inedito governo di coalizione dovrebbe favorire la collaborazione tra potere centrale e amministrazioni territoriali (l’Alleanza Democratica amministra da anni alcune importanti aree del Paese, tra cui la provincia del Capo Occidentale e la Città del Capo, NDR) che per lungo tempo si sono accusate a vicenda di malgoverno e inefficienza».
Lotta alle ingiustizie
Le emergenze del Sudafrica sono ben note: il pauroso divario sociale, il rallentamento dell’economia, la perdita di posti di lavoro, il crollo del valore del rand (la moneta nazionale), la crisi energetica che paralizza il Paese. Problemi enormi acuiti prima dagli effetti dalla pandemia di Covid (il Sudafrica è il Paese africano che ha registrato più casi e più decessi – più centomila vittime – ha che pagato il prezzo maggiore in termini sociali ed economici) e poi delle crisi internazionali – in particolare le guerre in Ucraina e Palestina –, che hanno fatto schizzare alle stelle i prezzi dei beni di importazione e frenato le esportazioni.
I disastri della congiuntura sfavorevole si sono abbattuti come uno tsunami sulle fasce più deboli della società, anche quelle della comunità bianca, che ha visto esplodere il numero di disoccupati e di indigenti. Secondo le organizzazioni civili e il sindacato Solidarity, sono circa 450.000 i bianchi che vivono in campi abusivi. Solo intorno a Pretoria, la capitale amministrativa, ci sono 80 insediamenti di questo tipo e, secondo altre fonti, circa 500 in tutto il Paese. Una parte significativa dei bianchi sudafricani, discendenti dei primi colonizzatori di origine olandese e inglese, ma anche francese e tedesca, un tempo agiati, si vede quindi ora costretta a vivere ai limiti della sussistenza considerandosi vittima di una “apartheid al contrario” che li porrebbe in una posizione ancor più svantaggiata rispetto ai milioni di neri sudafricani poveri con i quali, tra l’altro, tendono a non integrarsi. Dopo la fine della segregazione razziale, molti sudafricani bianchi non qualificati e della fascia medio bassa della popolazione hanno subito gli effetti di leggi promulgate dai precedenti governi che favoriscono l’occupazione dei neri.
Leggi controverse come l’Employment Equity Amendment Bill, entrato in vigore nel 2023, volute dall’Anc, e sostenute dalla Confederazione sindacale (Cosatu) «per promuovere l’uguaglianza di cittadini svantaggiati», ma fortemente contestate da cittadini bianchi, scesi in piazza per protestare contro il provvedimento, mobilitati dall’Alleanza Democratica, secondo cui le «quote razziali» sarebbero responsabili della «perdita di 600 mila posti di lavoro a danno di persone che hanno perso il loro impiego perché non hanno un adeguato colore di pelle».

Il peso della storia
È su questi nervi scoperti che cercheranno di inferire i principali partiti di opposizione – populisti e di sinistra radicale – esclusi dal governo di unità nazionale: l’uMkhonto we Sizwe guidato dall’ex presidente Jacob Zuma, che ha accusato Ramaphosa di brogli, ed Economic freedom fighters (Eff), fondato da Julius Malema, che ha bocciato la svolta del governo di coalizione: «Un matrimonio di convenienza che finirà per consolidare il potere monopolistico dei bianchi sull’economia e sui mezzi di produzione». La loro battaglia in Parlamento sarà dura e cercherà di creare fratture nel nuovo governo – nato dopo estenuanti trattative e mal di pancia – e nell’elettorato che lo ha sostenuto, strumentalizzando i problemi irrisolti della questione razziale. Entrambi i maggiori partiti di opposizione, infatti, chiedono l’esproprio delle proprietà dei bianchi, additati come il cancro della società che non è stato estirpato con la fine del regime segregazionista.
Al di là dei violenti toni populisti usati da Malema e Zuma, il tema della riforma terriera in Sudafrica resta un nodo da sciogliere. Circa il 70% delle terre commerciale appartiene ancora oggi alla minoranza bianca e i tentativi finora intrapresi di intaccare questo privilegio sono naufragati. «Il progetto di espropriazione della terra senza compensazione è al momento naufragato anche per l’oggettiva complessità dell’operazione», spiega Cristiana Fiamingo, che argomenta. «Sarebbe una follia mandare la popolazione all’arrembaggio della terra. Come giustamente hanno fatto notare cooperative di agricoltori e contadini di ogni colore, la redistribuzione delle terre senza controllo da parte dello Stato avrebbe effetti disastrosi per l’intera popolazione. Detto questo, è chiaro che certi privilegi goduti da proprietari terrieri bianchi siano oggi intollerabili. E mi riferisco soprattutto a quei vasti possedimenti non produttivi eredati dal sistema segregazionista.
Un mio conoscente afrikaner mi ha confessato di possedere cinque morgen di terra incolta. Il morgen era una unità di misura utilizzata nei Paesi Bassi e nelle colonie olandesi, comprese il Sudafrica: equivale a un territorio percorribile in cinque giorni di cavallo. È chiaro che queste situazioni siano oggi inaccettabili, d’altro canto la storia non si può cancellare». I negoziati che all’inizio degli anni Novanta portarono allo smantellamento dell’apartheid e disegnarono il nuovo assetto del Sudafrica lasciarono insoluti i nodi dell’economia. L’élite bianca aveva accettato di cedere il potere politico, ma si era premunita di ottenere garanzie per le proprie imprese e proprietà (del resto, la locomotiva sudafricana non avrebbe potuto privarsi del suo carburante). La supremazia bianca era stata spazzata via dai palazzi del governo, ma restava in ambito economico. Corrosivo, a questo proposito, il commento dell’attivista nero Rassol Snymaan: «In verità non ci siamo ancora liberati. Hanno solo tolto la catena che avevamo al collo e ce le l’hanno messa alle caviglie».

Risorse e fragilità
Malgrado i problemi irrisolti, il Sudafrica resta una potenza indiscussa. Il suo pil è il maggiore del continente, e le sue imprese tra le più dinamiche e competitive. Il territorio, vasto quattro volte l’Italia, è ricco di oro, diamanti, platino (detiene il 75% delle riserve mondiali), carbone (primo produttore al mondo). Malgrado le sue risorse energetiche, il Sudafrica soffre di continui blackout programmati – chiamati «load shedding», perdite di carico – che in alcuni periodi dell’anno raggiungono livelli record di quasi dieci ore al giorno. A rimetterci sono comuni cittadini – quantomeno quelli che non possono permettersi un generatore domestico – e le imprese, costrette interrompere le attività. Paradossi sudafricani: l’enorme ricchezza mineraria su cui poggia l’industria estrattiva e il vigoroso comparto agricolo – tra i più industrializzati al mondo – non solo non garantiscono il benessere di tutti ma alimentano le disparità tra ricchi e poveri. A più di trent’anni dalla fine del l’apartheid, l’uguaglianza della popolazione resta un miraggio.
Secondo Pineteh Angu, studioso alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pretoria, il Sudafrica post-apartheid è caratterizzato da «un crescente sentimento di dolore, rabbia e frustrazione scatenato da pervasive ingiustizie». La crescita asfittica dell’economia negli ultimi cinque anni, unita alla disoccupazione, ha aumentato le disprità sociali, portando il coefficiente di Gini a 0,63, il più alto al mondo. Povertà e disagio sociale alimentano il crimine e l’insicurezza generale, che secondo un rapporto recente della Banca Mondiale costa alle csse dello Stato quasi il 10% del Pil. In Sudafrica si registrano alcuni dei più alti tassi di criminalità al mondo: 47 omicidi ogni 100mila abitanti (sei volte maggiore di quello degli Stati Uniti). Sono molto frequenti crimini violenti come aggressioni e rapimenti, oltre a furti e rapine. Alcuni di questi crimini sono leggermente diminuiti negli ultimi anni, altri no, ma il livello di insicurezza resta paurosamente alto, specie per le donne. Ogni tre ore, avviene un femminicidio: un tasso cinque volte superiore alla media mondiale. La polizia riceve 110 accuse di stupro al giorno, ma il fenomeno ha proporzioni ben più allarmanti, considerato che i casi denunciati sono meno della metà. Malgrado gli sforzi delle autorità, i numeri di omicidi (22.325 registrati lo scorso anno) e di aggressioni alle donne (53.293 quelle certificate) sono in costante aumento. Anche gli immigrati in Sudafrica, stimati in quattro milioni in un Paese di 60 milioni di abitanti, hanno sperimentato sulla loro pelle gli effetti di un clima sociale che si è deteriorato e avvelenato, come testimoniano le ondate di attacchi xenofobici – costati la vita a decine di persone – che hanno preso di mira abitati ed esercizi commerciali di lavoratori originari di Zimbabwe, Nigeria, Zambia, Mozambico, Congo… accusati di «sottrarre lavoro e alimentare la delinquenza».
Contrasti stridenti
Non solo. I numeri delle statistiche sono impietosi e raccontano la frattura della società sudafricana che per molti versi coincide ancora con il colore della pelle dei cittadini. Secondo i dati del governo, il tasso di disoccupazione oscilla attorno al 33%, ma la percentuale sale al 46% tra i giovani di pelle nera mentre non supera il 7,5% tra i bianchi. Anche ai livelli più alti del mondo degli affari la disuguaglianza è evidente: ai neri, che costituiscono l’80% della popolazione occupabile, va il 17% degli impieghi di alto livello, mentre i bianchi, che rappresentano circa l’8% della popolazione occupabile, stando ai dati ufficiali ne detengono il 63% (il 20% residuo è occupato dai cosiddetti coloured, i meticci, e dai cittadini di origine asiatica). Le divisioni della società sono evidenti. Agli ordinati e puliti quartieri residenziali con ville da vip e ristoranti alla moda di Città del Capo, Pretoria e Johannesburg, continuano a contrapporsi le caotiche distese di lamiera abitate dai neri, sui quali gravano politiche che si rivelano tuttora contraddittorie, soprattutto nei periodi di crisi come quello relativo all’acqua.
All’inizio del 2018 si prevedeva, per il mese di aprile, l’arrivo del Day Zero, il giorno in cui non sarebbe più uscita acqua da nessun rubi- netto di Città del Capo: quartieri ricchi e poveri sarebbero stati accomunati dalla mancanza di una risorsa vitale. In realtà, a sperimentare quella dura realtà furono i quartieri popolari, dove vennero applicate restrizioni in proporzione più dure rispetto alle zone residenziali bianche. «Mi trovavo in città durante le settimane della crisi idrica», ricorda Cristiana Fiamingo. «Ricordo bene che mentre c’erano file di neri con taniche e secchi davanti alle autobotti nelle aree più esclusive della città si bagnavano i giardini con noncuranza».

I ghetti dei bianchi
Capetown è forse la vetrina implacabile dei contrasti sudafricani. Lo scintillante quartiere del Waterfront, zona di ristoranti, negozi e locali alla moda, protetta con eccezionali misure di sicurezza, appare sempre più assediata da una cintura di quartieri diseredati. Continuano poi a esistere luoghi come Orania, l’ultima enclave interamente afrikaner del Sudafrica, che si trova a metà strada fra Città del Capo e Johannesburg. Un “mondo a parte” popolato esclusivamente da sudafricani di pelle bianca, di origine olandese, tradizionalmente di religione calvinista e di lingua afrikaans. Un micro-volkstaat, un piccolo Stato boero i cui abitanti rivendicano il desiderio di autonomia e di selfwerksaamheid (autosufficienza). Fondata nel 1991 da una quarantina di famiglie afrikaner su un lotto di 430 ettari sulle sponde del fiume Orange, è una zona ricca d’acqua, con terra fertile. Guidati da un certo Carel Boshoff, genero di Hendrik Frensch Verwoerd, considerato l’architetto del sistema di apartheid, formarono una piccola comunità che, con la fine della segregazione, si isolò sempre più. Le regole per chi voglia farne parte sono ancora adesso molto rigide: essere veri afrikaner, parlare correntemente l’afrikaans e, soprattutto, essere bianchi. Contraddizioni e mondi a sé che continuano a fare del Sudafrica un Paese dai più alti livelli di disuguaglianza di reddito e ricchezza al mondo.
La tentazione di andarsene
L’Institute of Race Relations, un think tank di ricerca e politica con sede in Sudafrica, fa notare che «le politiche basate sulla razza non hanno funzionato» per sollevare milioni di persone dalla povertà; ha invece raccomandato un approccio basato sulle competenze per un’occupazione inclusiva. Nel frattempo, sono sempre più numerosi i bianchi che decidono di lasciare il Paese: stando alle stime demografiche di metà anno per il 2024 pubblicate da Statistics South Africa, la popolazione bianca è diminuita in un anno di 17.311 unità. La medesima fonte indica l’emigrazione come fattore chiave della tendenza al declino. Nonostante il Sudafrica rappresenti l’economia più grande e avanzata dell’Africa subsahariana, sostenuta dalla ricchezza di risorse naturali, da una base industriale diversificata, e da un forte settore turistico, il Paese sembra tuttavia rimanere una delle nazioni al mondo più regolamentate dal punto di vista razziale. E i bianchi iniziano a sperimentare una realtà che fino a qualche decennio fa era a loro totalmente estranea. «Al di là del colore della pelle – chiosa Cristiana Fiamingo – i nuovi governanti del Sudafrica dovranno essere capaci di fornire risposte concrete ai giovani che oggi rappresentano il 70% della popolazione e che manifestano sfiducia, frustrazione e rabbia. Investimenti nella scuola e nella formazione saranno decisivi. Solo offrire nuove chances a questi giovani assetati di riscatto e di giustizia si potrà ridisegnare un futuro di speranza per la Nazione Arcobaleno».