Il dominio coloniale europeo sul suolo africano si caratterizzò anche per il prelievo delle opere d’arte. Una ferita ancora aperta che getta ulteriori ombre sul modus operandi dei colonizzatori.
Di Federico Pani – Centro studi AMIStaDeS
Nel novembre dello scorso anno il presidente francese Emmanuel Macron ha siglato un accordo con il suo omologo del Benin, Patrice Talon, per la restituzione di ventisei opere d’arte prelevate dal Palazzo di Abomey dell’ex colonia francese. I pezzi, provenienti da una miniera di oggetti trafugati dalle forze francesi nel 1892, sono stati esposti al museo Quai Branly di Parigi durante la cerimonia che ha suggellato la restituzione con una stratta di mano tra i due Capi di Stato. La decisione segue le crescenti richieste africane rivolte ai Paesi europei per rimpatriare quello che viene definito un vero e proprio “bottino coloniale”.
Dalla sua elezione, avvenuta nel 2017, Macron si è comunque spinto oltre i suoi predecessori, promettendo la restituzione del patrimonio culturale africano entro cinque anni. Si stima che il Quai Branly annoveri all’interno della sua collezione oltre trecentomila oggetti e manufatti africani. I bronzi del Benin, una collezione composta da sculture e targhe intagliate in avorio, bronzo e ottone, hanno trovato spazio in oltre 160 musei sparsi in tutto il mondo: la più grande collezione, composta da 928 pezzi, si trova al British Museum di Londra; il Museo Etnologico di Berlino ne contiene 516; mentre un egual numero, 160, ne contengono il Weltmuseum di Vienna e il Metropolitan Museum of Art (Met) di New York.
Le questioni ancora irrisolte
Benché la restituzione rappresenti la più ingente che la Francia abbia mai fatto a un ex dominio coloniale, essa rappresenta soltanto una piccola parte delle cinquemila opere delle quali il Benin auspica il rimpatrio, e delle decine di migliaia presenti a tutt’oggi sul suolo francese. Si ritiene che circa il 90% del patrimonio culturale africano si trovi nel Vecchio Continente. Il solo museo Quai Branly custodisce circa settantamila oggetti africani: un rapporto del 2018 commissionato dal governo francese afferma che circa la metà di essi dovrebbero essere autorizzati al ritorno sul suolo africano. Seguendo l’esempio, il Smithsonian Museum of African Art di Washington ha deciso di rimuovere dall’esposizione i bronzi del Benin e sta progettando il rimpatrio dei manufatti. Il Fowlwe Museum dell’Università della California ha prospettato di intavolare un dialogo con le autorità nigeriane sul futuro di diciotto oggetti presenti nella sua collezione.
Oltre un secolo fa, la comunità agricola di Chibok, nel nord della Nigeria, ha combattuto una delle più importanti resistenze del continente africano al processo di colonizzazione. Le forze britanniche impiegarono ben tre mesi per piegare la resistenza della città: le frecce e le lance che i cittadini di Chibok avevano utilizzato contro gli inglesi furono poi raccolte e inviate a Londra dove ancora oggi vengono conservate.
Nel 2020 la Nigeria ha formato un organismo indipendente, il Legacy Restoration Trust, con il compito di gestire i negoziati con i musei stranieri, compiendo un enorme passo in avanti verso la restituzione delle opere al continente africano: non è un caso che da questo momento in avanti la Nigeria sia riuscita con successo a stipulare una serie di accordi per i rimpatri. Tuttavia, nonostante i rimarchevoli passi in avanti, le trattative, come ad esempio quelle con il British Museum, son spesso arrivate ad un punto morto, bloccate tanto dal British Museum Act (1963), quanto dal National Act (1983). Il Benin Dialogue Group, una rete di dialogo tra rappresentanti nigeriani e musei europei, incluso proprio il British Museum, si è prodigato in decenni di discussioni sulle modalità di rimpatrio dei manufatti, senza però raggiungere ancora dei risultati tangibili.
Il comportamento dei colonizzatori: un’offesa all’arte africana?
Si ritiene che la spedizione guidata dall’esploratore britannico Richard Lander rappresenti il primo esempio di prelievo forzoso da parte degli europei di un artefatto originario della Nigeria. Il manufatto, conservato presso il British Museum, rappresenta uno sgabello Yoruba finemente intagliato. Una svolta nell’esplorazione del continente africano avvenne con l’impiego del chinino, un medicinale adoperato per curare la malaria, che consentì ad esploratori, mercanti e predoni di schiavi di avventurarsi oltre le coste di Lagos, in quelle regioni che venivano precedentemente considerate una “tomba di uomini bianchi”. Le spedizioni militari consentirono agli ufficiali britannici di mettere le mani sui manufatti, che presero poi la strada di Londra. La Royal Niger Company (RNC) una società commerciale governata dal mercante George Goldie, venne nel 1929 assorbita in Unilever, di proprietà di William Lever, che faceva ruotare la sua attività attorno all’estrazione dell’olio di palma per utilizzarlo poi come ingrediente chiave nella produzione di saponi. Uniliver detiene ancora oggi una serie di manufatti africani, giustificandone il possesso con il fatto che si trattava di regali elargiti ai propri dipendenti.
Diversi manufatti finirono per essere sequestrati dalle autorità britanniche durante le guerre combattute contro i governanti locali. Nel 1872, la Gran Bretagna ampliò i suoi territori nell’Africa occidentale annettendo la Costa d’oro, precedentemente sotto la Corona olandese, incontrando però la resistenza della tribù Asante che si rifiutò di riconoscere la nuova dominazione. La spedizione, composta da 2500 soldati britannici, depredò di fatto il palazzo reale della capitale Kumasi e le opere contenute al suo interno vennero vendute all’asta meno di tre mesi dopo. Nel 1892 i soldati britannici attaccarono il regno Yoruba di Ijebu. Cinque anni più tardi la Gran Bretagna lanciò una vera e propria “spedizione punitiva” contro il Benin in risposta all’uccisione di sette funzionari appartenenti ad un convoglio britannico. In entrambe le occasioni i manufatti locali finirono per essere saccheggiati. Un caso particolarmente emblematico è quello del capo tribù Nandi Koitalel Arap Samoei che si oppose strenuamente contro i progetti ferroviari dei britannici, trovando la morte nel 1905 ucciso da un colpo d’arma da fuoco. Il corpo di Samoei fu decapitato e la sua testa portata a Londra. Il suo teschio viene conservato in Gran Bretagna.
I progetti del popolo africano.
I leader del continente africano accolsero speranzosi le parole del presidente Macron che nel 2017 dichiarò come il rimpatrio del patrimonio africano alle sue ex colonie sarebbe stata una “priorità assoluta”. Il Jesus College dell’Università di Cambridge è divenuta una delle prime istituzioni britanniche ad annunciare il rimpatrio di un manufatto, raffigurante un galletto di bronzo originario del Benin. Ma è stato soltanto con la morte di George Floyd negli Stati Uniti e con la nascita del movimento Black Lives Matter (Blm) che il rimpatrio dei manufatti africani ha acquisito uno slancio globale ed il processo di restituzione è diventato parte di un ampio dibattito sull’uguaglianza razziale proprio sulla scia delle proteste.
È in questo contesto che può essere inquadrata la decisione della Germania di restituire entro il 2022 oltre mille bronzi al Benin. I bronzi saranno poi esposti all’Edo Museum of West African Art il quale dovrebbe essere inaugurato tra quattro anni. Malgrado alcuni procedimenti di restituzione sembrano essersi momentaneamente arenati, gli Stati africani stanno formando il proprio personale museale, istituendo ad esempio custodi culturali. In Ghana sta prendendo forma il piano per costruire il Pan African Heritage World. L’Unione Africana (Au) ha annunciato l’intenzione di costruire entro il 2023 un Grande Museo dell’Africa, nell’intento di dare un’accelerata al processo di rimpatrio del patrimonio artistico.