di Amaury Hauchard e Pierre Yambuya
In Mali e Niger la vita di milioni di persone dipende dal fiume Niger. Costretti a convivere con il terrore degli attacchi jihadisti e delle rappresaglie dei militari, e sotto la minaccia di un clima sempre più duro, gli abitanti dei due Paesi saheliani affidano i loro destini a un fiume, inesauribile fonte di vita, che continua a scorrere placido fra i tormenti degli uomini
Il vecchio Ousmane Djebare Djenepo sorride mentre osserva le placide acque del Niger che scorrono attorno alla sua piroga di legno. L’uomo, 76 anni, è uno dei tanti maliani che si guadagnano da vivere grazie al fiume e alle verdeggianti zone umide che lo circondano. Ma il sorriso di Djenepo nasconde apprensioni. «Prima il fiume era profondo e le stagioni di pesca erano lunghe», racconta. «Adesso ci sono molto meno pesci e il fiume ha troppi problemi». Djenepo è a capo dell’associazione dei pescatori del delta interno del fiume Niger, una vasta area di territorio del Mali centrale, grande quanto la Svizzera. I problemi ecologici minacciano la sopravvivenza delle popolazioni locali, già duramente colpite dalle violenze dei gruppi jihadisti armati che hanno preso il controllo della regione governandone i traffici più redditizi (di droga, di armi, di migranti).
«Di male in peggio»
Da quando, nel 2012, i miliziani islamici hanno lanciato la loro insurrezione, il terrore si è diffuso tra gli abitanti che vivono sul Niger, e i ripetuti attacchi ai civili – costati la vita a migliaia di cittadini inermi – hanno svuotato villaggi interi. A causa dell’insicurezza molti contadini hanno abbandonato il fazzoletto di terra dove un tempo coltivavano zucchine, cipolle, pomodori e melanzane. I raid armati dei jihadisti, che si spostano su motorette e armati di kalashnikov, in genere vengono condotti mentre la gente lavora nei campi, o lungo le strade nei giorni di mercato quando i contadini vanno col loro carretto in città a vendere gli ortaggi.
In un clima sempre più incerto, chi rimane non può fare altro che affidare la propria vita al fiume, che da sempre garantisce il cibo quotidiano e in caso di attacco può rappresentare una via di fuga. Ma i problemi restano. La pesca eccessiva ha impoverito la fauna ittica nel delta interno del Niger e anche il deserto del Sahara sta invadendo le verdi pianure alluvionali. Boukary Guindo, direttore del dipartimento governativo della pesca per la regione, non nasconde le preoccupazioni: «La situazione va di male in peggio». Il delta interno del Niger è un ecosistema complesso che fornisce sostentamento alle comunità di pescatori, agricoltori e pastori. Durante le inondazioni della stagione delle piogge, solo le piroghe possono attraversarlo. Ma quando le acque si ritirano, affiorano vaste praterie di erba fresca che attirano bestiame da tutto il semiarido Sahel. Oggi questa alternanza sta sparendo.
Guerre tra poveri
«Il Sahara sta “inghiottendo” il fiume Niger», dice senza giri di parole Hamidou Touré, responsabile dell’ufficio per lo sviluppo della pesca del delta. «Ogni settimana nuovi banchi di sabbia tagliano fuori le aree un tempo produttive del delta, e i pesci non sopravvivono nelle pozze, che evaporano sotto un sole sempre più inclemente». Colpa anche delle dighe costruite a partire dagli anni Settanta, che hanno modificato il corso del terzo fiume più lungo del continente africano e ne hanno ridotto il flusso. Oggi, poi, il clima del Sahel, segnato sempre più frequentemente da siccità prolungate, sta dissanguando il Niger. «L’arsura provoca una forte evaporazione lungo il corso d’acqua», fa presente Hamidou Touré. «A Bamako il fiume ha una portata di mille metri cubi, che tuttavia si dimezza dopo circa 500 chilometri». E ogni anno si registrano nuovi record negativi di piovosità. «Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una catastrofe ambientale e umana annunciata», dice Ibrahima Sankaré, dell’ong umanitaria Delta Survie. «Quello che un tempo era il cuore verde del Sahel sta diventando arido e improduttivo. E ciò sta facendo saltare i fragili equilibri tra le popolazioni, che per secoli hanno garantito la convivenza pacifica tra pastori fulani, contadini bambara e pescatori bozo».
Con il progressivo impoverimento delle risorse aumentano le tensioni e saltano le regole di diritto consuetudinario ideate nell’antichità e tramandate oralmente per generazioni. Nella stagione secca le acque del fiume si abbassano e lasciano affiorare piccoli isolotti erbosi nel mezzo del fiume. I pescatori allora si spostano e vi costruiscono capanne di fortuna e sfruttano nuove zone di pesca. Attingere il cibo dal fiume è una questione di sopravvivenza, ma ogni attività umana in queste terre provoca contraccolpi sull’ambiente che possono causare problemi e conflitti.
Noi civili nel mirino
«I nostri cugini Bozo pensano che i pesci cadano dal cielo», dice, con un sorriso mesto, Boukary Guindo. «Non rispettano i periodi di fermo pesca e fanno razzia degli esemplari riproduttori, ma così facendo rischiano di decimare gli stock». Il lavoro di Guindo consisterebbe nel sensibilizzare i pescatori sulla necessità di rapportarsi con il fiume in modo responsabile, incoraggiandoli per esempio all’utilizzo di reti che risparmino i pesci più piccoli. Tuttavia, la dilagante insicurezza del Mali centrale impedisce il lavoro sul campo.
Da quando i jihadisti affiliati ad al-Qaeda si sono spinti in questa regione, la zona è diventata uno dei campi di battaglia più sanguinosi del conflitto del Sahel, dove il governo esercita poco controllo. «Siamo in balia dei banditi e dei miliziani», urla disperato Barthélémy Ouédraogo, un contadino che vive in piena zona rossa – un territorio ritenuto altamente pericoloso dove le autorità consentono l’accesso solo ai militari. «Il problema è che non ci sentiamo tutelati neppure da chi dovrebbe difenderci. I soldati dell’esercito e i militari francesi che un tempo stazionavano da queste parti hanno lasciato il campo ai mercenari russi chiamati a ripulire la zona dai jihadisti. Ma spesso siamo noi civili a finire nel mirino delle loro armi. Viviamo nel terrore alla mercé di chi impone con la forza la sua legge».
Alcuni pescatori Bozo hanno riferito all’agenzia Afp che i miliziani islamisti a volte bloccano l’accesso alle zone di pesca ed esigono di riscuotere delle tasse, non si fanno scrupoli a sparare a chiunque osi ribellarsi alla loro autorità.
Incertezza politica
Nel 2018 i jihadisti hanno rapito gli uomini della famiglia di Rokia Keita che viveva sulle rive del Niger. «Un gruppo armato ha ordinato che le piroghe con cui stavamo cercando di scappare si fermassero sulla riva del fiume». La donna ha implorato inutilmente i miliziani. «Hanno preso mio marito, due figli e due fratelli. Da allora non li ho mai più visti», racconta tra i singhiozzi. Al di là del confine, nello Stato del Niger, la situazione non cambia: ogni settimana si registrano attacchi jihadisti a villaggi, caserme, convogli.
E la sicurezza non è certo migliorata con il colpo di stato del 26 luglio che ha destituito il presidente Mohamed Bazoum e insediato al potere una giunta militare (come già avvenuto in Guinea, Burkina Faso e Mali). Da mesi i gruppi qaedisti sfruttano la situazione di instabilità e incertezza politica nella regione per lanciare attacchi a basi militari, villaggi, miniere di oro e uranio. A farne le spese sono soprattutto le comunità dell’area nigerina della cosiddetta “Tripla Frontiera” (la zona di Liptako-Gourma) all’intersezione di Mali, Burkina Faso e Niger: le più colpite dall’insorgenza jihadista.
Piroghe e cammelli
Indifferente ai problemi degli uomini, il Niger continua a scorrere placido attraverso le piane arroventate del Sahel, collegando Bamako e Niamey, due capitali al centro della crisi. È un viaggio lungo e incerto, quello del fiume che sfida il deserto. Racconta l’antropologo Marco Aime: «A mano a mano che si percorre la grande ansa del fiume, il paesaggio si fa sempre più arido. Gli alberi si diradano, fino a lasciare il posto ad arbusti solitari, le cui radici contorte e rattrappite sembrano denunciare la loro volontà di sopravvivere a un sole sempre più aggressivo. Poi c’è solo la sabbia del deserto. Non è casuale che proprio nel punto in cui il Niger penetra più a nord nel Sahara, sia sorta Timbuctu, il luogo dove, come scriveva il cronista arabo as-Sadi, “chi viaggia in piroga incontra chi viaggia in cammello”. Era un luogo quanto mai strategico per il commercio. Qui si scambiavano merci provenienti dal Mediterraneo con beni che arrivavano dall’interno dell’Africa. Qui sorse una delle più importanti città della storia africana e non solo».
Ai fasti del passato non corrisponde un presente altrettanto glorioso. Le antiche città carovaniere come Timbuctu e Gao sono oggi in forte declino, segnate dall’isolamento, dall’avanzare del deserto e dal terrorismo.
Il fascino immutato del fiume
Ma il Niger, malgrado gli allarmi ambientali e l’instabilità delle regioni che attraversa, mantiene inalterato il suo fascino. «Navigare sulle sue acque è un’esperienza che tocca nel profondo», prosegue il racconto di Marco Aime. «Se la celebre risalita del fiume Congo, magistralmente narrata da Joseph Conrad, significava addentrarsi nel “cuore di tenebra” dell’Africa, percorrere le acque collose del Niger è come andare verso un nulla sempre più luminoso, sempre più pallido, dove tutto si dissolve lentamente».
Si viaggia al ritmo lento delle pinasses, con le loro vele fatte di sacchi del cemento cuciti assieme. Enormi rattoppi che intercettano le brezze stanche del fiume, per sospingere genti e merci. «Sulle rive sfilano lenti villaggi fatti di case di terra e cupole di paglia. Le mandrie dei pastori nomadi sono parte del paesaggio, così come le piccole piroghe dei pescatori in cerca di un buon posto dove gettare le reti». È quel paesaggio immutato che ispirava Ali Farka Touré, il re del blues del Sahel, chitarrista e cantante maliano scomparso nel 2006, la cui musica vibrante nasceva sulle rive del Niger e traeva forza dalle sue acque. «Suoni unici», fa notare Marco Aime, «che scivolavano tra dolcezza e disperazione con una semplicità che solo la vita vera di questa parte dell’Africa riesce a esprimere».
Questo articolo è uscito sul numero 1/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.