Davvero agli italiani interessano i servizi televisivi sul gatto obeso in Gran Bretagna più che quelli sull’infinito disastro umanitario nell’est della Repubblica Democratica del Congo? Davvero ci inchiodavamo davanti al teleschermo quando passavano le notizie sulla profezia Maya della fine del mondo e cambiamo invece canale se si accenna ai massacri di civili nel nord del Mali? E se questo è vero, perchè accade?
Il rapporto presentato questa mattina a Roma da Medici Senza Frontiere (“Le crisi umanitarie dimenticate dai media nel 2012”, realizzato insieme all’Osservatorio di Pavia) non fornisce risposte, purtroppo, pero’ fotografa uno dei tanti aspetti critici dell’informazione nazionale e sollecita una riflessione che, alla fine, riguarda il livello culturale complessivo del nostro Paese.
I dati, dunque. Dall’analisi dei sette principali telegiornali nazionali di prima serata, tra Rai, Mediaset e La7, emerge che nel corso del 2012 solo il 4% dei servizi è stato dedicato alle crisi umanitarie nel mondo. E’ il dato più basso dal 2006 (nel 2011 si trattava invece del 10%). Forse perchè, ipotizza Paola Barretta dell’Osservatorio di Pavia, “l’instabilità politica del nostro Paese e la crisi economica, spesso trattata in maniera ansiogena, hanno occupato il 40% delle notizie. Inoltre, lo scorso anno non ha registrato macro-emergenze internazionali paragonabili allo tsunami del Sudest asiatico nel 2004 o al terremoto di Haiti nel 2010. Infine, un terzo elemento tipicamente italiano può essere il fatto che, mentre nel 2011 il tema dei flussi migratori, raccontati sempre in maniera emergenziale ma almeno con un riferimento alle crisi dei Paesi di provenienza degli immigrati, nel 2012 viene invece a mancare”.
Così, per 70 notizie dedicate alle curiosità del mondo animale (dalla tragica fine di un coniglietto senza orecchie al cucciolo di formichiere rimasto orfano), solo 7 parlano invece dell’Hiv/Aids. Per 39 servizi sui malanni invernali (uno per tutti, citato dal rapporto: “Record di cappelli e cappucci di ogni forma e colore”), 17 hanno raccontato il Sudan e il Sud Sudan, e la maggior parte di questi si focalizzava sulla campagna promossa da George Clooney. Delle 26 notizie sul Mali, poi, quasi tutte erano sulla liberazione di Rosselle Urru, la cooperante italiana rapita a Tindouf, in Algeria, e solo 3 riportavano la ripresa delle ostilità nel Paese. Si è per fortuna parlato maggiormente di Siria, con 506 servizi, ma quasi sempre dal punto di vista delle relazioni internazionali, abbandonando dietro le quinte le sofferenze della popolazione coinvolta. La grandissima assente è la Repubblica Centrafricana: alla sua situazione drammatica, culminata nel colpo di Stato dello scorso marzo, non ha accennato alcun telegiornale, mai. E mentre all’uragano Sandy negli Stati Uniti sono stati dedicati 220 servizi, al tifone Bopha nelle Filippine soltanto 7: oltre 260 morti nel primo caso; oltre 700 e più di 800 dispersi nel secondo.
Il Tg1 risulta più virtuoso degli altri (il 5,7% delle notizie dedicate alle crisi umanitarie contro il 3,8% del Tg5 e il 2,1% di Studio Aperto), ma il confronto con le reti pubbliche europee è imbarazzante. In Germania, Ard1 parla di questi temi nel 14,4% delle sue news; Bbc One in Gran Bretagna nell’8,7% dei casi; France2 nel 7,2%.
Quando frequentavo la scuola di giornalismo, nel preistorico 1998, ci parlavano di una legge interna ai nostri media per cui un europeo vale mille cinesi. Tradotto dall’orrendo cinichese suona più o meno così: affinché un evento drammatico in Cina abbia copertura mediatica a casa nostra, devono esserci almeno mille morti; ma se vi è coinvolto un europeo, allora ci interessa subito. Oggi, con l’ascesa economica della Cina, i poveri mille cinesi dell’imbarazzante equazione datata anni Novanta verrebbero probabilmente sostituiti dagli africani, ma il concetto resta quello: continuiamo a ripetere di vivere in un mondo globalizzato e poi i nostri media si focalizzano sull’Italia, e non solo sulle notizie nazionali importanti, ma sul gossip, sulla cronaca nera, sulle ultime tendenze di costume di cui domani ci saremo tutti scordati senza danno per le nostre esistenze.
Medici Senza Frontiere Italia ha diffuso una lettera aperta ai direttori di tutte le redazioni giornalistiche italiane, chiedendo “di sostenere gli sforzi per portare le crisi dimenticate all’attenzione dell’opinione pubblica”. Una lettera fin troppo garbata che oggi nessun giornale ha pubblicato, come ha fatto notare durante la conferenza Daniela de Robert del Tg2. Eppure il presidente di Medici Senza Frontiere Italia, Loris de Filippi, mantiene la fiducia nell’intelligenza di tutti noi: “Secondo me siamo di fronte a un grosso equivoco”, ha detto stamattina. “Si dà per scontato che le persone non siano interessate alle crisi umanitarie, invece sono stufe del gossip su Pippa Middleton. Il problema è che bisogna convincerne, prima che i giornalisti, i capistruttura e soprattutto gli editori”.
E se è vero, come ha sottolineato lo storico inviato del Messaggero Valerio Pellizzari, che il nostro è diventato “un giornalismo impacchettato, docile e privo di una vera autonomia”, è anche vero che contro determinate scelte editoriali nessuno di noi, operatori “di base” dell’informazione, può nulla. Ci vorrebbe uno studio, trasversale tra il marketing e la statistica, che dicesse a chiare lettere che un servizio sui rifugiati maliani in Mauritania ha avuto un’audience di molto superiore rispetto a quello sulla scimmia disabile che grazie alle cure diventa acrobata. Perché qualcuno non ci pensa, a una ricerca del genere? Se poi verrà fuori che invece gli italiani vogliono davvero l’infotainment (quel ripugnante mostro a due teste che e’ l’intrattenimento mascherato da informazione), ci metteremo l’anima in pace. Ma intanto uno spiraglio si apre: un’indagine di GfK Eurisko presentata sempre questa mattina, dice che il 63% degli italiani vorrebbe ricevere più notizie sulle crisi umanitarie nel nostro mondo. E vorrebbe riceverle proprio dai telegiornali di prima serata i quali, in barba a internet, restano la fonte primaria di informazione per il 66% della popolazione.
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