Scorre tra storia e leggende il più importante fiume dell’Africa australe. Sulle orme dell’esploratore inglese David Livingstone, discendiamo il leggendario corso d’acqua che bagna ben sei Paesi. Dalle sue sorgenti in Zambia alle sue foci in Mozambico, attraverso dighe colossali e cascate scroscianti
di Alberto Salza – foto di Bruno Zanzottera
Lo so, non suona bene, ma alla “Strada di Dio” – il fiume Zambesi secondo il noto dottor Livingstone, un maniaco con l’idea fissa di aprire a Gesù e «al commercio» l’Africa centrale – io ci arrivai in autostop. In preda a delirio chilometrico ero partito a piedi dal Lago Turkana, nel Kenya settentrionale, per poi attraversare Tanzania e Zambia chiuso dentro un autotreno guidato da due somali scheletrici, tenuti in vita dalle anfetamine del qat. Non si fermarono mai, per duemila chilometri. Solo prima di risalire sull’altopiano dove scorre lo Zambesi mi estrassero da sotto due minacciosi rotoli da cartiera e dissero: «In salita rallentiamo. Vai sul carico e tieni gli occhi aperti. Ci sono pirati che saltano sul camion per fregare qualunque cosa. Se vedi una mano, tagliala». E mi diedero un machete.
Fortunatamente, la luna piena dissuase i predoni, ma dello Zambesi non vidi nulla se non la linea oscura di una gola oltre il bordo del carico. Negli anni a seguire, però, lo Zambesi divenne un amico: ogni volta che cercavo scampo dalla desolazione del Kalahari, aveva acqua limacciosa per dissetarmi.
Destino incerto
Come molti grandi fiumi africani – vedi il Niger – lo Zambesi pare non saper dove andare. Le sorgenti sono presso i rilievi del Katanga, che impediscono il fluire delle sue acque verso il fiume Congo. Non ci sono giungle misteriose da quelle parti: chiunque faccia due passi nella boscaglia raggiunge facilmente la polla di acqua limpida da cui lo Zambesi inizia il viaggio verso l’Oceano Indiano. Stranamente, Livingstone non ci arrivò mai, nonostante si fosse sfinito a morte per dodici anni impiegati a mappare il fiume: forse non voleva delusioni. Fatto sta che lo Zambesi scappa in Angola, come volesse raggiungere l’Atlantico; poi fa un ricciolo verso il Sudafrica; lì, un tempo si perdeva nelle Makgadikadi Pans del Kalahari, dove io ero alla ricerca dei Boscimani; quindi, forse a causa di eventi tettonici, lo Zambesi si volse verso nord-est.
Il primo europeo a imbattersi nella foce del fiume fu Vasco da Gama nel 1498, nell’attuale Mozambico, ma il nome Zambesi comparve sulle mappe qualche anno dopo. Nel 1552 i portoghesi annotarono come le genti del regno di Monomotapa (attorno alla città medievale di Great Zimbabwe) chiamassero il fiume Zembere o Zambeze (nelle lingue bantu, le lettere L, R e Z possono essere intercambiabili), dal termine per indicare gli M’biza o Bisa, dominanti l’area a nord del fiume. I coloni britannici preferirono un’etimologia alimentare: il nome deriverebbe dalla parola mbeze,che significa “pesce”.
Il regno dei Lozi
Livingstone, dopo mille chilometri di marcia dal sud attraverso territori inesplorati, nel 1851 raggiunse il fiume dalle parti di Shesheke, tra Zambia e Namibia. Lì, tutti gli fornirono un nome diverso: Luambeji, Luambesi, Ambezi, Ojimbesi e, anche, Zambesi. L’insieme significa semplicemente “fiume”.
Livingstone, sempre disposto a farsi del male, chiese informazioni all’etnia dominante, i Lozi. All’epoca, i Lozi erano una confederazione di 38 gruppi parlanti lingue sotho-tswana, riuniti in un impero centralizzato retto dal litunga, il sovrano. Il nome che i Lozi davano all’alto Zambesi era Leembye, “fiume”. Il guaio è che lozi significa “piana alluvionale”. Il territorio dei Lozi è alla confluenza di tre tributari dello Zambesi: il Lunguebungu, il Kabompo e il Lwena, ognuno con popolazioni differenti sulle rive. Le piogge dalla foresta equatoriale ingrossano il fiume a causa della strettoia di basalto a valle: le Cascate Vittoria. Di conseguenza, l’esondazione stagionale raggiunge anche i 10 metri, trasformando il territorio in un lago di 7000 chilometri quadrati a geometria variabile.
Questa è la ragione per cui gli esploratori ipotizzarono le sorgenti dello Zambesi nell’ennesimo “Grande Lago” nella giungla. Invece, per sopravvivere nelle savane erbose, i Lozi misero a punto una tecnologia di risistemazione ecologica unica nell’area, bacino del Congo compreso: le colline artificiali che gli archeologi hanno ritrovato nell’alto Zambesi. Non a caso, la parola litunga, usata per il re, indica “colui che tiene la terra” (vedi “L’arca del Re sullo Zambesi” in Africa, maggio-giugno 2017, pp. 52-57).
Il fumo che tuona
Livingstone iniziò la discesa dello Zambesi dal Paese dei Lozi (Barotseland o Bulozi) da ovest. Per fargli dispetto, io ci arrivai da est. Entrambi ci piantammo alle Cascate Vittoria, il blocco sulla “Strada di Dio”. A 40 chilometri di distanza, al di sopra del miombo (un monotono incrocio venuto male tra savana e foresta che caratterizza l’ecosistema del medio Zambesi) vidi all’orizzonte del fumo bianco. Poi avvertii il brontolio. Quindi, su un baobab scorsi il fantasma di Livingstone appollaiato su un ramo.
All’epoca, lui era sbarcato sull’isola di Kazeruka, a monte. Da lì, steso sul ventre, aveva guardato giù per 110 metri di abisso d’acqua, per poi farneticare nei suoi diari di numeri, misure, valutazioni sballate («Strisciando con terrore alla punta dell’isola, vidi in basso un enorme squarcio; una massa d’acqua larga dagli 800 ai 1000 metri cadeva da un’altezza di 33, ribollendo in un’apertura larga 15 metri») e, infine, vide «una densa nuvola bianca, simile al fumo di una locomotiva». All’epoca, il luogo era noto come Mosi-oa-Tunya, “il fumo che tuona”, ma in origine era detto seongo o thonguè, “il sito dell’arcobaleno”. Poesia toponomastica d’Africa versus illusionismo industriale d’Occidente: l’arcobaleno c’è e si vede, la locomotiva no.
Dighe e paludi
Lungo il corso dello Zambesi vive una settantina di popolazioni differenti. Perseguitato dall’ossessione dei cacciatori-raccoglitori dell’Africa meridionale, inseguii dalle parti di Kanyemba, alla confluenza del Luangwa, gli elusivi Doma (o Dema), considerati nella valle dello Zambesi come stregoni capricciosi. I Doma sono noti per la diffusa ectrodattilia, una deformazione genetica del cromosoma 7 per cui mancano le tre dita centrali degli arti, mentre le due dita rimanenti sono rivolte verso il centro. Da quelle parti, i Doma sono chiamati “piedi di struzzo”: decisi di lasciar perdere la mia ricerca e proseguii il mio viaggio.
In un villaggio tonga, vicino a Kariba, mi venne raccontato il mito di Nyami Nyami, il dio-serpente dello Zambesi, dal diametro di tre metri (nessuno osa ipotizzarne la lunghezza). Quando ci nuota, le acque del fiume diventano rosse (laterite di piena?). Pare si sia nascosto appena finita la diga, dal momento che le acque coprirono casa sua, una grande roccia-trappola (kariwa, da cui il toponimo). Ovviamente, Nyami Nyami è furibondo, dato che la diga lo separò dalla moglie: negli anni Cinquanta, una serie di disastri climatici mise in pericolo la diga e gli abitanti di Kariba. I Tonga aspettano a tutt’oggi l’evento finale della rabbia di Nyami Nyami, cui è stato eretto un monumento apotropaico.
Mi venne di fuggire dal fiume. Così mi impantanai a nord, nelle paludi del Bangweulu. Come dice il nome, qui “l’acqua incontra il cielo”. Quindicimila chilometri quadrati di abominio, tra erbe che tolgono la vista e zanzare da scacciare a ciuffi, per finire in un tripudio di biodiversità. Ovviamente, il primo europeo che capitò da quelle parti fu Livingstone. I Bemba, abitanti della zona, gli diedero un passaggio in canoa fino all’isola di Mbabala. Dopo tutto quel vagare idrico, le paludi del Bangweulu furono fatali a Livingstone. Spero solo di non finire come lui, suonato nella testa, piantato nel fango con la sindrome di “Chi l’ha visto”, pieno di ulcere, infetto dalla malaria, con una dissenteria tale da farlo morire per emorragia interna nel 1873, nel villaggio di Ilala, a sud-ovest del Bangweulu. Abbastanza lontano dallo Zambesi, ma non troppo.
Questo articolo è uscito sul numero 2/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.