“Il libro nero delle missioni”: così avrebbe potuto intitolarlo un editore un po’ spregiudicato. Ma questo non è un pamphlet né un libro a tesi, bensì uno studio (che ha fatto conseguire all’autore il dottorato in Storia contemporanea) che scava nel tema, finora poco indagato, enunciato nel titolo. Lo fa senza rimasticare la letteratura esistente, comunque passata al vaglio critico, e soprattutto attingendo a fonti archivistiche ecclesiastiche finora rimaste nell’oblio. Perché, quando gli ambienti missionari pubblicarono articoli e libri sull’evangelizzazione dell’allora Africa Orientale Italiana, si trattò, per dirlo con una parola sola, di propaganda. Oggi va dato atto che per le sue ricerche l’autore ha generalmente trovato le porte aperte.
L’arco storico considerato nel volume va dal 1838, anno dello sbarco a Massaua del primo lazzarista italiano, al 1943, disfatta dell’impero fascista. Tante vicende e personaggi, con una particolare focalizzazione sul periodo finale, che inizia con la “guerra d’Abissinia” (1935-36) e che vede un vero e proprio scramble for Ethiopia degli istituti missionari non ancora presenti. Tutti vedevano nella conquista fascista un evento provvidenziale, e non ci si faceva certo problema nel rifornire l’esercito di cappellani militari (non meno di trecento) e nel richiedere, se non esigere, alle autorità coloniali – che peraltro facevano a gara a prometterli – sostanziosi aiuti all’impiantazione materiale (la «febbre del mattone») della Chiesa cattolica. Questo, benché la singolare fisionomia religiosa dell’Etiopia-Eritrea – Paese con una Chiesa locale (che per i cattolici era «scismatica» quando non «eretica») di antichissima tradizione – avesse sempre posto problema. Il missionario non si recava in un territorio vergine dal punto di vista cristiano, tutt’altro. Ma figure come quella di san Giustino de Jacobis, che seppe farsi etiope con gli etiopi, nella frugalità di vita e nel rispetto per la locale Chiesa ortodossa, furono davvero rarissime.
Molto più frequenti erano le beghe economiche, le lotte tra istituti e anche le lotte intestine, e il trattamento razzista che molti cappuccini, ma non solo loro, riservavano ai sacerdoti etiopici cattolici – peraltro non sempre così remissivi. (Comportamenti analoghi si verificavano a Roma nel Collegio Etiopico, l’apposito seminario funzionante in Vaticano dalla fine del XV secolo). Quando poi sbarcarono in massa i coloni, fu chiaro per buona parte del personale missionario che la priorità doveva andare all’assistenza religiosa ai connazionali. Inoltre, per quanto possibile, le messe per gli italiani dovevano celebrarsi in orari distinti da quelli per gli «indigeni». Non avvenne così sempre e dappertutto, ma ce n’è abbastanza per chiedersi quale Vangelo venisse predicato. Un discorso di maggiore, quantunque prudente, saggezza ed evangelicità veniva dai vertici romani: dalla Congregazione Orientale e da Propaganda Fide nonché dai pontefici in persona – nella misura in cui questi arrivavano a essere correttamente informati della situazione sul terreno. Rari erano perfino i missionari conoscitori delle lingue locali.
Insomma un libro denso e sorprendente, per il modo in cui smonta gran parte dell’epopea missionaria in quel determinato contesto geografico-temporale. E dove l’autore – che tra l’altro detiene una licenza in Missiologia presso la Pontificia Università Urbaniana ed è insegnante di religione – non ha bisogno di ricorrere a un linguaggio duro per sottolineare tante contraddizioni e atteggiamenti scandalosi: sono i fatti, e i documenti, a parlare da soli.
Un’osservazione a margine: ottant’anni dopo la «riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma» – con tanta acqua passata sotto i ponti e, per la Chiesa, il Concilio e un percorso di radicale ridefinizione della missionarietà – questa può apparire storia lontana, quasi un esercizio intellettuale. Non va però sottovalutata la capacità di memoria dei popoli, soprattutto dei popoli oppressi. È da essa che possono originare certi atteggiamenti dei nativi per noi inspiegabili o bizzarri. Chi è missionario oggi in terre come quelle (e in molte altre: la missione moderna è tutta intrecciata al colonialismo) deve esserne consapevole. In positivo, la figura di de Jacobis, per esempio, è rimasta una pietra di paragone (a lui, per esempio, gli etiopi avevano assimilato il comboniano Pio Ferrari, giunto nella regione quasi ottant’anni dopo la morte del santo); in negativo, sappiamo che la persistenza della memoria di fatti e personaggi sgradevoli valica i secoli.
«Nonostante tutte le difficoltà dopo la partenza coatta dei missionari italiani – così conclude Cataldi –, le missioni furono portate avanti da preti e fedeli autoctoni, che ne avrebbero assicurato la sopravvivenza e lo sviluppo per diversi anni».
Edizioni Grifo, 2015, pp. 316, € 20,00
(Pier Maria Mazzola)