di Angelo Ferrari
La Cina è rimasto il principale partner commerciale dell’Africa per 12 anni consecutivi. A ciò si aggiungono gli investimenti infrastrutturali. Le banche di sviluppo cinesi hanno prestato più del doppio rispetto a quelle di Stati Uniti, Germania, Giappone e Francia messe insieme
Lo strapotere della Cina in Africa è assoluto. Lo dimostrano i dati sul commercio bilaterale che ha raggiunto il suo massimo livello. Secondo l’Amministrazione generale delle dogane di Pechino, il commercio bilaterale totale tra il continente africano e la Cina nel 2021 ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. L’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7% anno su anno.
La Cina, dunque, è rimasto il principale partner commerciale dell’Africa per 12 anni consecutivi. A ciò si aggiungono gli investimenti infrastrutturali. Le banche di sviluppo cinesi hanno prestato più del doppio rispetto a quelle di Stati Uniti, Germania, Giappone e Francia messe insieme. Se si considera il periodo 2007-2020, la China Exim bank e la China development bank hanno erogato finanziamenti per 23 miliardi di dollari, mentre tutte le principali istituzioni finanziarie per lo sviluppo messe insieme hanno erogato solo 9,1 miliardi di dollari.
Tra queste ci sono la Japan bank for international cooperation e Japan international cooperation agency, le tedesche Kfw e Deg, la Us internatioinal development finance corporation, la Fmo olandese, la Banca di sviluppo dell’Africa meridionale e la francese Proparco. La stessa cosa vale per le banche multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale. Questi istituti bancari hanno fornito una media di appena 1,4 miliardi di dollari all’anno per accordi su infrastrutture pubblico-private in Africa Subsahariana dal 2016 al 2020.
Pechino non ha concorrenti
La Cina non ha concorrenti e lo si è visto anche nella votazione di ieri all’Assemblea delle Nazioni unite dove si è votata la condanna dell’invasione russa in Ucraina. Se si guarda la cartina del mondo dove sono segnati con diversi colori chi ha votato a favore, chi contro e chi si è astenuto, si nota, in maniera plastica, che una parte dell’Africa ha votato come la Cina e l’India, cioè si è astenuta. Se a questi, 17, si somma l’Eritrea che ha votato contro e gli 8 che erano assenti, la somma fa 26, poco meno della metà delle 54 nazioni africane. Si può dire che lo sguardo del continente è sempre più rivolto a est e l’occidente rischia di diventare sempre più marginale.
È indubbio che la potenza economica di Pechino fa un po’ gola a tutti e che nessuno è in grado di competere sul piano economico, ma questo non basta per capire il “successo” cinese in Africa. Ci sono ragioni politiche: la Cina non è stata una potenza coloniale, e questo ha giovato, ma soprattutto ha applicato una politica di non ingerenza negli affari interni dei paesi nei quali ha investito. La Cina, tuttavia, non si è limitata a investire in infrastrutture in cambio di materie prime, ma ha costruito un castello solido, fondato sui cinque pilastri che rendendo inespugnabile l’impero.
La trappola del debito
La Cina non presta denaro “gratis”, intende essere ripagata, come normale che sia, ma si garantisce la restituzione dei denari prestati stipulando clausole spesso capestro. Un esempio significativo da questo punto di vista è Gibuti, dove ha sede la prima base permanente all’estero della Cina. Pechino ha investito 15 miliardi di dollari per lo sviluppo del principale porto e delle infrastrutture collegate. L’82% del debito estero è detenuto da Pechino e in caso di inadempienza, Gibuti potrebbe cedere ai cinesi il controllo del porto strategico di Doraleh, all’ingresso del Mar Rosso e del Canale di Suez.
Un altro esempio. Il porto di Mombasa (Kenya), tra i più frequentati dell’Africa orientale, è stato utilizzato come garanzia per il prestito di 3,2 miliardi di dollari utilizzati per la costruzione della linea ferroviaria di 470 chilometri tra Mombasa e Nairobi. Se il Kenya non salda il debito, la Exim Bank of China ne assumerà il controllo.
Presenza militare
Il castello deve essere difeso. Negli ultimi anni si è intensificata la presenza militare. La “base di supporto strategico” cinese è Gibuti. Il significato politico-strategico è quello di proteggere gli interessi all’estero. Alla Cina, però, non basta più il soft power, ma cerca di creare una rete di basi militari che possano rafforzare la sua presenza nel continente africano. L’interesse, ora, si concentrerebbe in Angola, Kenya, Seychelles, Tanzania e Namibia.
Il rapporto “Sviluppi militari e di sicurezza che coinvolgono la Repubblica popolare di Cina”, redatto dal Dipartimento di Difesa degli Stati Uniti, parla di questo e del fatto che Pechino starebbe sondando la disponibilità di almeno altre dodici nazioni nelle quali creare strutture logistiche per supportare le forze navali, aeree e di terra. Nel documento finale del Summit Cina-Africa, che si è svolto a Dakar in Senegal nel novembre 2021, non poteva mancare la “cooperazione nell’ambito della sicurezza”, vista come punto “focale” delle relazioni sino-africane.
Sono state annunciate, e questa è una novità, esercitazioni congiunte per operazioni di mantenimento della pace, nella lotta al terrorismo, al traffico di stupefacenti e pirateria. Da ultimo, secondo l’Istituto cinese di Studi internazionali di Pechino, la Cina è diventata il secondo fornitore d’armi al continente africano.
Una moneta legato allo yuan
La moneta. Ma vi è un altro pilastro del castello fortificato, per ora solo nelle intenzioni, che potrebbe diventare realtà. Cioè una moneta legata allo yuan. Un tentativo per rafforzare l’influenza cinese sul continente africano. L’occasione si è presentata quando i paesi dell’Africa occidentale – la maggior parte ex colonie francesi con il Franco Cfa ancorato all’euro e garantito dal Tesoro francese – hanno cominciato a pensare a una moneta propria, abbandonando quella coloniale. I cinesi si sono immediatamente inseriti nel dibattito, supportati dai paesi anglofoni e con l’insistenza del Ghana, cercando di spingere per una moneta – l’eco – proprio ancorata allo yuan. Il tentativo, per ora, è stato stoppato dalla Francia e da alcuni stati francofoni. Nascerà la moneta chiamata eco, ma sarà ancora ancorata all’euro. Ma è una partita tutta da giocare.
Controllo dei media
Il sistema dell’informazione si adatta agli equilibri geopolitici e serve a rafforzare gli obiettivi economici delle potenze mondiali. Un tempo l’intero sistema dell’informazione mondiale per parlare di Africa faceva riferimento alle grandi agenzie occidentali. Oggi le cose sono cambiate. Tra le grandi si è inserita, a pieno tiolo, l’agenzia cinese Xinhua che è diventata onnipresente in Africa. Si può dire che il continente africano che conosciamo oggi e di cui abbiamo notizia è in buona parte ciò che la Cina desidera si conosca. Xinhua ha una grande capacità di intercettare e diffondere notizie dall’Africa e ha più di 30 uffici di corrispondenza in tutto il continente. L’agenzia, che non ha nulla di indipendente, è subordinata direttamente al Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese.
Esportazione della manodopera cinese
La Cina oltre ad esportare in Africa beni esporta manodopera agricola proveniente dalle sue zone rurali. Il flusso migratorio dalla Cina è esploso negli ultimi vent’anni e prosegue a ritmi impressionanti. Non si conoscono i numeri, questa volta Pechino non li diffonde, ma la presenza cinese è ben visibile. Negli ultimi cinque anni ha investito 5 miliardi di dollari nell’agricoltura in Africa. L’intenzione di Pechino è quella di delocalizzare la produzione di cibo. Tutto ciò sta accadendo in Zambia, Uganda, Tanzania e Zimbabwe.
Come all’epoca del colonialismo la storia si ripete, con altri attori, ma con i medesimi risultati: gli africani, ora, sono diventati i camerieri dei cinesi.