La pandemia avrebbe potuto incidere molto sugli aiuti economici che i migranti sono soliti inviare alle proprie famiglie in patria, ma i numeri non hanno confermano le pessimistiche previsioni. Secondo un rapporto della Banca Mondiale le rimesse hanno continuato ad arrivare, soprattutto grazie ai sacrifici degli emigrati. Un encomiabile impegno che dovrebbe essere corrisposto da un eguale sostegno da parte degli operatori economici del Nord del mondo, ma non è sempre così
di Maurizio Ambrosini
L’anno del COVID è stato drammatico per tutti o quasi, ma soprattutto per i più deboli. Tra questi rientrano indubbiamente gli immigrati. Molte loro occupazioni, o perché informali, temporanee, precarie, oppure autonome in settori come i mercati ambulanti o la ristorazione, sono state pesantemente colpite. Si pensava dunque a una ricaduta sul flusso di rimesse, ossia sugli aiuti economici inviati alle famiglie in patria, con fosche previsioni sulle condizioni di vita e la protezione sociale di queste ultime.
Da questo fronte arrivano invece buone notizie, secondo un rapporto della Banca Mondiale. Smettendo gli scenari assai pessimistici disegnati dalla stessa Banca Mondiale lo scorso anno, le rimesse degli emigranti verso Paesi a reddito basso e medio nel 2020 sono scese soltanto dell’1,6%, attestandosi sulla cifra di 540 miliardi di dollari: una riduzione molto meno accentuata di quanto accaduto nel 2009, dopo la grave crisi finanziaria dell’anno precedente. Le rimesse inoltre sono calate meno degli investimenti diretti esteri, scesi dell’11%, e superano la somma tra questi investimenti e l’aiuto ufficiale allo sviluppo. Sono numeri che traducono storie di tenace resilienza e di persistente sollecitudine nei confronti dei familiari lontani. In altri termini, i migranti aiutano casa loro più degli Stati e degli operatori economici del Nord del mondo.
La solidarietà costruita dal basso incide di più degli interventi orchestrati dall’alto, oltre a raggiungere più capillarmente quartieri poveri, villaggi rurali e zone remote. Le rimesse si rivelano inoltre più stabili e capaci di assorbire gli effetti di eventi traumatici.
Si può individuare una componente tecnica in questo sorprendente risultato: le restrizioni della mobilità a causa della pandemia hanno probabilmente provocato una riduzione dei flussi informali di rimesse, ossia del denaro che gli emigranti trasportano con sé, al di fuori dei canali ufficiali. Non potendo viaggiare, si può presumere che abbiano fatto ricorso in misura maggiore ai servizi di money transfer e ad altri sistemi formali per l’invio del denaro alle famiglie.
Dietro al dato tecnico si staglia però una miriade di comportamenti individuali e familiari: migranti che hanno compresso i loro già parchi consumi per riuscire a mandare comunque i soldi che le famiglie aspettano; altri, che hanno potuto continuare a lavorare, avranno forse prolungato le loro già lunghe giornate di lavoro; qualcuno purtroppo si sarà indebitato, pur di adempiere ai propri impegni familiari.
Mandata in soffitta sul nascere l’iniqua tassa sulle rimesse introdotta dai decreti sicurezza salviniani, questo encomiabile impegno degli emigranti verso i luoghi di origine dovrebbe trovare un convinto sostegno. In primo luogo, mediante un’azione per ridurre i costi ancora troppo elevati dei trasferimenti di denaro verso l’estero. Se gli emigranti aiutano casa loro, dovremmo almeno aiutarli a far pervenire a destinazione il frutto dei loro sacrifici.
Maurizio Ambrosini. Docente di Sociologia delle Migrazioni nell’Università degli Studi di Milano, insegna anche nell’Università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro Studi Medì di Genova, dove dirige la rivista Mondi Migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Il suo ultimo libro è L'invasione immaginaria. L'immigrazione oltre i luoghi comuni (Laterza, 2020).