di Emanuela Zuccala – foto di Valeria Scrilatti e Paolo Ghisu
Mozambico, reportage da uno slum di cemento i cui abitanti vivono intrappolati nelle macerie della storia. In epoca coloniale celebrava con la sua fastosità il potere del regime portoghese. Lo sfarzo fu spazzato via dalla guerra civile. Oggi le macerie del celebre hotel di Beira ospitano 1.800 disperati
Nel grigio di pareti raschiate e chiazze di muffa, la stanza 226 è spaziosa e in ordine. Dove c’era un armadio a muro, Isabelle Lindre ha riposto le taniche per l’acqua e la divisa scolastica del figlio, appesa in vista come un trofeo. Una zanzariera azzurra nasconde il materasso in terra. Lei, con un pancione di 9 mesi, si muove lenta verso la porta di legno marcio che dà su una terrazza e, spalancandola, inspira a occhi chiusi la carezza fresca dell’oceano. Forse dimentica, per un istante, di vivere al secondo piano di una baraccopoli, tra le più vaste e insensate dell’Africa australe.
A Beira, la seconda città del Mozambico, nel quartiere di Ponta Gea che termina all’estuario dei fiumi Pungwe e Buzi, una sagoma di cemento tanto solenne quanto decrepita ha tenuto testa a 6 decenni di rivoluzioni politiche e sociali, intrecciando la sua storia con quella del Paese. Un albergo dalla sorte sinistra, che gli ha accordato il tutto esaurito solo dopo la chiusura.
SFARZO IN ROVINA
Oggi il Grande Hotel Beira è uno slum verticale con 1.800 abitanti, senza infissi né bagni né luce, tanto sgretolato che pare dover crollare all’improvviso. Eppure nasceva come un gioiello di Art Déco: la Companhia de Moçambique, la società che dominava l’economia della provincia di Sofala in epoca portoghese, sognava un’architettura mai vista nel continente, traboccante di marmi e mosaici, lampadari di cristallo, scalinate principesche, come un totem celebrativo del regime di Salazar a Lisbona. Avrebbe accolto partner commerciali, politici e facoltosi turisti. Inaugurato nel 1955, sfoggiava un’altezza di 25 metri su 3 piani, 116 stanze, una terrazza per l’atterraggio degli elicotteri, negozi, parrucchieri, ristoranti, bar. E una piscina olimpionica, l’unica nelle colonie portoghesi. Ma l’illusione megalomane evaporò in fretta: i clienti scarseggiavano e l’hotel costava uno sproposito. Fu chiuso 8 anni dopo. Restarono in funzione la piscina e un centro congressi, usato l’ultima volta nel ’71 per il matrimonio della figlia di Jorge Jardim, governatore del Mozambico.
Dopo l’indipendenza dal Portogallo, il 25 giugno 1975, il Grande Hotel si convertì nel quartier generale a Beira del partito filo-russo al potere, il Frelimo, e poi, con la guerra civile scoppiata nel ‘77, del Renamo, il movimento ribelle appoggiato da Rhodesia e Sudafrica in funzione anticomunista, per ridursi infine a un arrangiato campo profughi. Quando venne negoziata la pace nell’ottobre del ’92, i rifugiati avevano ormai messo radici nell’involucro annerito e svuotato di ogni passato, convertendo le suite in oltre 200 abitazioni di fortuna e vendendo tutto il vendibile: dai mobili agli infissi, dagli ascensori alle tubature, fino ai cavi elettrici e all’intonaco, tessendo anno dopo anno l’attuale atmosfera di precarietà permanente.
UN MONDO A PARTE
Questa saga ingloriosa Carlos Nori la conosce a memoria, poiché stava per inghiottire anche lui. Suo padre era un militare di base al Grande Hotel e Carlos, che oggi ha 45 anni, è vissuto qui fino al 2014, «quando sono riuscito a costruirmi una vera casa». Oggi lavora al municipio, al quale è passata la proprietà di quest’assurda geometria. E Carlos, da ex baraccato, porta le istanze della sua gente alle autorità locali: «Chiedono di essere ricollocati altrove» spiega, «o almeno la costruzione di latrine e più fonti d’acqua, visto che i 4 rubinetti al pian terreno non bastano. Ma il Comune non risponde, non ha alcun progetto. Spera che una società privata compri tutto e risolva il problema: non sembra una barzelletta?».
Nella hall decorata a cumuli di spazzatura e graffiti caotici, Carlos elenca le angustie dell’infame labirinto: alcolismo, violenza domestica, spaccio di droga. E bambini che giocando cadono dai cornicioni senza parapetti. All’entrata, sullo sfondo di detriti antichi, una giovane vende pomodori e papaya e un’altra dispone sacchi di carbone, che gli occupanti acquistano per cucinare e scaldarsi. Il Grande Hotel Beira vive di quest’economia a ciclo chiuso: le bancarelle puntellano l’ingresso, ci sono una sartoria e due cinema, il tutto sotto il controllo di sette capi anziani, custodi dell’autogestione.
Una di loro è Beatriz Rosa Paulo, per tutti donaBea, 46 anni di cui 25 trascorsi qui, dove ha cresciuto 6 figli. In ciabatte di gomma dentro al fango fresco, si dice infuriata per i giovani che vogliono uscire dalla famiglia e finiscono per assemblare giacigli di lamiera e teli di plastica nei corridoi, perché ogni anfratto è già stato preso. «Stiamo scoppiando: non ho mai visto questo posto così pieno» tuona Bea coprendo quasi i suoni gracchianti sul retro della sua bottega. È il cinema principale del Grande Hotel, una capanna con panche di legno, un televisore d’altri tempi e un lettore Cd. «Compro i film vicino al porto» riferisce Akibar Hassan, 21 anni, che risiede qui dal 2008 e sopravvive staccando biglietti da 3 meticais a proiezione (5 centesimi di euro). Da Quelimane, 500 chilometri a nord, è emigrato a caccia di fortuna nel grande porto di Beira. S’è ritrovato per strada finché qualcuno gli ha offerto un angolo al Grande Hotel per 300 meticais al mese (4,5 euro): «Lo fanno in tanti» assicura il giovane, «riescono a trasferirsi e affittano il loro spazio. Anch’io un giorno me ne andrò, e diventerò un brav’uomo».
L’esausto scheletro coloniale ha resistito persino al ciclone Idai, tra le peggiori catastrofi climatiche nella storia africana, che il 15 marzo del 2019 ha scoperchiato il 90% delle costruzioni di Beira, provocando quasi 600 morti. Gli squatter hanno rifiutato l’evacuazione per non perdere la loro casa, e per giorni hanno svuotato l’albergo dall’acqua, riuscendo a superare un focolaio di colera. La piscina è straripata, ma da tempo non è che una fetida cisterna d’acqua verde su cui galleggiano rifiuti. Tre ragazzini vi si bagnano festanti mentre sotto il portico attiguo, fra topi e scarafaggi, le donne riempiono le taniche dai pochi rubinetti e nei catini lavano i panni con i bambini. Più in là, c’è chi zappa orti di manioca e sistema essiccatoi per il pesce.
DRAMMI E SPERANZE
Katia Paulo Muntanda ha 22 anni, treccine fitte, il figlio Felicio in braccio, e alloggia in un bugigattolo al secondo piano. Ci arriviamo salendo una delle due maestose scalinate che incorniciano la hall, attraverso corridoi spettrali, pavimenti pericolanti e appiccicosi, e le voragini degli ascensori rattoppate con assi e teli. Nella casa di Katia, che ai tempi d’oro del Grande Hotel doveva essere una vasca da bagno, ci sta a malapena un materasso, e nella minuscola anticamera s’accumulano sedie e un generatore malmesso. Ma è un altro, il luogo che la donna tiene a mostrare: il ballatoio sospeso nel vuoto fra due blocchi dell’edificio. Da quassù è caduto il suo primo figlio, morendo sul colpo. Aveva 4 anni. «Io sedevo là in fondo» ricorda Katia con gli occhi vuoti. «Ho sentito gridare in basso. Tanti, qui, mi hanno aiutata per il funerale». Le prende la mano Natalia Chimundi, psicologa della Ong italiana Medici con l’Africa Cuamm, che si occupa di prevenzione dell’Hiv: in Mozambico l’incidenza del virus è del 13,2%, fra le più elevate d’Africa, ma nella provincia di Sofala s’impenna al 16,3%. Nel centro sanitario di Ponta Gea, Natalia assiste tante figlie del Grande Hotel e oggi, entrandovi per la prima volta, è scossa dalle loro condizioni di vita. «Restano incinte da adolescenti» sospira, «e mi rattrista che per loro la salute venga dopo tutti gli altri problemi: carenza d’acqua, sporcizia, disoccupazione…».
Natalia fa visita a Elena Caragenhe, 38 anni, che convive con l’Hiv. È aggraziata in un abito a righe, gli orecchini bianchi a forma di cuore e un velo di rossetto. Il Grande Hotel è il suo mondo da quando aveva 9 anni, e alla stanza 305 ha cercato di dare decoro recuperando due poltrone in pelle e un tavolino da salotto. Elena desidera solo che i 5 figli studino, «diventino medici e infermieri, comprino un terreno e mi portino via. Devono avere una vita migliore della mia». Sale le scale del quarto blocco verso la terrazza, le uniche che conservino frantumi di marmi rosa. Lo spettacolo dell’Oceano Indiano dall’alto regala una fuga da questo stagnante microcosmo. E concede a Elena di immaginare orizzonti diversi, futuri aperti.
(Questo reportage e le foto di Valeria Scrilatti sono stati realizzati con il supporto di Medici con l’Africa Cuamm e del Consorzio Ong Piemontesi attraverso il programma Frame, Voice, Report! con il contributo dell’Unione Europea.)
Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop