di Mario Ghirardi
Sette moschee di fango svettanti su altrettanti colli desertici, visibili a chilometri di distanza nel piatto e monotono paesaggio del Sahel, sono in pericolo. Si trovano, in un contesto fiabesco, tutt’attorno al piccolo villaggio di Bani, sulla strada che dalla capitale Ouagadougou conduce a Gorom Gorom e a Dori, il principale centro del nord est del Burkina Faso, poco lontano dal confine che separa il Burkina stesso dal Niger a est e dal Mali a nord.
E’ proprio questo incrocio di linee tracciate idealmente nel deserto che non consente un controllo adeguato dei confini alle polizie di frontiera dei rispettivi Stati, tanto che il territorio è ormai off limits per chiunque, preda com’è di bande armate di ispirazione jihadista. Queste negli ultimi anni hanno seminato distruzioni di massa ed eccidi tra gli abitanti dei villaggi accusati semplicemente di essere cristiani, eccidi che hanno scatenato per contro altri massacri, imputati questa volta alle forze armate regolari, intervenute per reprimere supposte connivenze con i terroristi. Il risultato è che i morti si contano a centinaia e praticamente nessun straniero vi si può avvicinare.
A farne le spese sono anche quelle sette moschee che, dal canto loro, meriterebbero miglior sorte di quella attuale, nonostante siano manufatti risalenti soltanto a mezzo secolo fa, seppur ispirati ad altri tradizionali luoghi di preghiera storici presenti in più di uno Stato della regione del Sahel. La loro genesi è curiosa e, come spesso accade, da cercarsi tra realtà e leggenda, un ‘c’era una volta’ che ha come origine il sogno di Cissè Amed Ama, chiamato anche El Hadj Mohammed Kafando, nato nel 1918. Verso i suoi 7 anni di vita, nonostante non avesse istruzione, egli si mise a recitare il Corano alla stessa stregua di un profeta e poi si ritirò nel deserto a meditare per 40 anni. Dopodichè si recò almeno tre volte in pellegrinaggio alla Mecca, che, si narra, una volta, nel 1975, raggiunse addirittura a piedi.
Queste straordinarie esperienze gli valsero il sostegno di tutta la popolazione locale, la quale alla fine degli anni Settanta non ebbe dubbi nell’aiutarlo nella costruzione delle sette moschee, seguendo la visione che Cissè aveva avuto in sogno nel 1972. Le sette ‘sorelle’ dovevano essere visibili in lontananza e dall’alto apparire come i punti di snodo di una figura umana dalle braccia protese in alto con l’avambraccio piegato a 90 gradi. E così fu, con 5mila persone che parteciparono ai lavori senza disporre di alcun disegno progettuale, concludendoli in pochi anni, esattamente nel 1986. Furono costruite una al centro a raffigurare la testa dell’orante, con ai lati altre due a rappresentare le sue mani. Un’altra coppia doveva dare conto della posizione dei gomiti e un’altra ancora, assai più distante da lì, dei suoi piedi.
Ogni moschea ebbe anche un suo caratteristico nome, nell’ordine citato, a partire dalla testa: sole al tramonto, buona idea, sacrificio, gioia, benedizione, piacere, sole nascente. Furono costruite su uno schema quasi quadrato, tutte con lati di circa 10 metri, con decorazioni diverse in facciata, che sempre però ricordano il devoto con le braccia alzate e i gomiti piegati in gesto di preghiera verso il cielo, unite a vari disegni di tipo geometrico, rombi, parallelepipedi, triangoli, e ‘astronomico’, ovvero riproducenti luna e stelle. Sono caratterizzate ciascuna da un’abside e divise dai pilastri in tre navate. I pavimenti sono di sabbia e i muri ovviamente di mattoni di fango essicati al sole, come da tradizione locale, ripetendo i motivi ornamentali della grande moschea, di cui già nel XIII secolo esisteva traccia ai margini del villaggio di Bani. Questa moschea, non per nulla detta la ‘grande’, o ‘Mani di Dio’, è di dimensioni assai più considerevoli (è larga 28 metri e lunga 35, con muri perimetrali alti 10) ed è sostenuta da un centinaio di pilastri di 5 metri suddivisi in una decina di file. Il grande minareto tondeggiante è trafitto da centinaia di bastoni di legno e il complesso è circondato da un muro con un varco vigilato da due torri, dal quale si accede al recinto sacro.
Il degrado del complesso ha oggi raggiunto proporzioni molto vaste, a causa delle condizioni climatiche a cui si aggiunge l’assoluta mancanza di manutenzione, che per questi edifici fatti di ‘banco’, come viene chiamato in loco questo particolare tipo di fango, è fondamentale, tanto che è necessario intervenire sulle strutture almeno una volta ogni anno. Questo non è certo il momento storico che consente operazioni di questo tipo, considerando anche che il turismo ed i pellegrinaggi che potevano portare risorse economiche ai 4mila abitanti di Bani, sono completamente spariti per le già citate minacce terroristiche. Senza contare che il cambiamento climatico, con piogge torrenziali e un fortissimo vento di harmattan, ha messo a serio rischio le volte e il tetto della moschea principale, degradando tutto l’ambiente interno, a cominciare dalla precaria acustica, e le torri di materiale troppo instabile per reggere adeguatamente. E la situazione strutturale delle 7 ‘sorelle’ è ancora più precaria, con gli edifici che hanno subito danni ben più gravi, con vasti crolli, anche oltre la metà della loro superficie, che non ne permettono alcun uso.
Il futuro non si prospetta dunque roseo, ed un vero peccato si perda con questo ritmo un complesso di edifici così particolari per la storia che hanno alle spalle e per la fama che si erano conquistati, a cavallo tra fiaba e realtà.