L’eleganza dei nomadi

di claudia

di Elena Dak – foto di Michele Cattani / Afp

Estetica e antropologia dei Peul e dei Tuareg. Per i pastori del deserto l’eleganza e il garbo sono antidoti alla desolazione e all’ostilità dell’ambiente. Il loro culto della bellezza ha un valore identitario che cela profondi risvolti sociali, come dimostrano il significato dei turbanti e del make-up sahariano

Benché vivano in terre desertiche o aride, i Tuareg e i Peul, nomadi dediti alla pastorizia, non rinunciano alla cura dell’aspetto fisico: un’attenzione di sé tuttavia mai fine a sé stessa, ma sempre orientata a scopi socialmente definiti.

I due popoli, sparsi in buona parte del Sahara e del Sahel, vivono in territori attigui e questo ha stimolato attriti feroci o profonda collaborazione, a seconda delle circostanze. In Mali e Burkina Faso, le tensioni che li vedono protagonisti sono laceranti, ma in Niger, a fine stagione delle piogge, chiunque si aggiri per le dorate savane nei dintorni di Abalak troverebbe decine di famiglie tuareg e peul in spostamento per raggiungere insieme gli stessi pascoli ricchi di sale e buoni per le loro bestie.

La vicinanza tra i due gruppi in Niger è tale che i Peul hanno assunto nel loro abbigliamento alcuni degli elementi tipici della parure tuareg, come il turbante, la spada tradizionale, detta takuba, e gli astucci di cuoio rosso da portare al collo ed esporre sul davanti, utili per il tabacco o i soldi. La condivisione degli stessi spazi, per quanto estesi, ha favorito la migrazione di dettagli estetici da un gruppo all’altro, a riprova della porosità di ogni etnia e dell’apertura ad assumere tratti di altre attigue.

Chiunque si trovi a passeggiare da dicembre a febbraio per le strade di Agadez potrà imbattersi in uomini velati e abbigliati con le lunghe tuniche in tessuto bazan, coperti da ampi cappotti color cammello lunghi fino a metà tibia che incarnano la moda invernale del momento.

Discrezione e fierezza

In genere non esiste celebrazione familiare o di villaggio, o anche una semplice visita a parenti o conoscenti, che non sia pretesto per abbigliarsi in un certo modo e addobbare sé stessi e i dromedari con abbondanza di finimenti di pelle accuratamente dipinti, per usare la sella migliore e per avvolgere sul capo metri di stoffa per il turbante, l’elemento che più di ogni altro identifica gli uomini di questo gruppo. Il tagelmust è una lunga fascia di cotone, lunga di solito fra i 3 e i 5 metri, ma che può arrivare anche a 10, tinta di indaco e avvolta sul capo e sul viso dei Tuareg in modo da formare al contempo un turbante e un velo che copre il volto, lasciando libera solo una fessura per gli occhi. Il tagelmust fa parte dell’abbigliamento di ogni Tuareg ma soprattutto è parte integrante del modo di comportarsi, è un’emanazione del codice di valori in cui si intrecciano discrezione e fierezza.

La fascia sulla fronte del turbante si chiama asshak e rappresenta l’insieme delle cose che rendono un uomo degno di esser detto tale.

Parole da allevare

La parte invece che ricopre bocca e naso, detta tenna, rappresenta la capacità di tener fede a ciò che si dice, alla parola data. Nell’ambito di una cultura pastorale incentrata sulle transumanze e sulla cura quotidiana degli animali, in una società dove tutti, eccetto i fabbri, sono anche pastori, pensare che l’attenzione rivolta alla parola preveda lo stesso senso di accudimento rivolto agli animali e che quindi l’uomo attraverso il velo sia pastore della propria parola dà la misura dell’attenzione, della premura, della riflessione con cui si fa uso della parola, preziosa come i capi del bestiame. Una parola che va allevata, nutrita, addestrata; la parola come qualcosa di cui prendersi cura come il corpo o l’abbigliamento. La tradizione vuole che occhi, orecchie e naso siano il più possibile coperti dal velo sia per proteggere da vento, sole e freddo sia per impedire che gli spiriti cattivi si infiltrino dagli orifizi.

Turbanti diversi

Pertanto l’uso del turbante, elemento così appariscente e distintivo dell’aspetto estetico dei Tuareg, nasce da necessità pratiche legate all’ambiente così come da credenze spirituali e, come conseguenza, conferisce mistero e maestà agli uomini, togliendo quel tanto di umano, di vero, che c’è in ogni volto. Esso è rappresentativo dell’identità di un gruppo e al tempo stesso della personalità di ciascuno, in quanto ogni uomo lo avvolge in maniera propria sovrapponendo in molteplici giri concentrici la fascia di tessuto: chi ne fa una grossa ciambella panciuta, chi lo compone in verticale creando una sorta di cilindro, chi incastra l’estremità che chiude le volute in modo vezzoso e appariscente creando una sorta di fiocco. Durante le attività quotidiane i turbanti indossati sono quelli “da lavoro”, usurati e sporchi però mai avvolti con disattenzione o malamente.

Il classico velo da festa, detto alesho, composto di almeno cinquanta strette fasce di tessuto di cotone cucite insieme e tinte d’indaco, viene usato solo in circostanze cerimoniali. Il colore di cui il tessuto è imbevuto non è fissato in modo indelebile giacché non esiste un mordente per l’indaco, che rilascia sulla pelle sfumature bluastre dai riflessi metallici, ed è previsto che queste vengano lasciate sia per proteggere la cute sia perché il viso, così conciato, è esteticamente molto apprezzato.

Codice di comportamento 

Tra i Peul vige un codice di comportamento a cui tutti si ispirano, il pulaaku, che detta non solo le regole dell’agire per essere degni di definirsi Peul ma anche le regole del parlare, del tono di voce, del modo di guardare e di atteggiarsi. Il portamento e le buone maniere sono valori assoluti tra i Peul, e vanno celebrati assieme al concetto di tappol, la bellezza fisica.

Fieri del proprio look, i pastori wodaabe (frazione del mondo peul sparsa tra Niger e Ciad) si radunano ogni anno nel cuore del Sahel alla fine della stagione delle piogge in occasione del Gerewol, sorta di grande festa della vanità che celebra la bellezza dei nomadi ed è l’occasione in cui si combinano i matrimoni.

Truccati e abbigliati in modo esuberante, i giovani ostentano la propria prestanza fisica e danno vita ad una spettacolare cerimonia fatta di danze sensuali e sguardi ammiccanti. Non è un semplice concorso di bellezza, ma un rituale estetico che ha un profondo valore sociale. Tali cerimonie, favorendo i matrimoni tra esponenti di clan diversi, sono uno strumento prezioso per rafforzare la coesione di un gruppo etnico altrimenti molto frammentato. Per sette giorni e sette notti i danzatori di due diversi lignaggi, accordatisi, si confrontano in una battaglia a colpi di danze e canti i cui protagonisti sono gli uomini sulla scena e le donne, oggetto di seduzione e potenziali candidate per nuovi matrimoni.

Grazia contro le spine

I giovani nomadi dedicano ore a truccarsi e a danzare esibendo la loro bellezza fisica e la grazia nel portamento oltre che l’abilità nelle movenze atte a riprodurre i movimenti dell’airone bianco dalle lunghe zampe che sosta sui buoi. La cura di sé e l’attenzione per la bellezza sono parte del processo di costruzione della relazione con l’ambiente: in un mondo di spine, erbe pungenti, acqua fangosa, piogge solo estive se va bene, scorpioni nel buio e soli impietosi, il pulaaku, nell’imporre, tra le altre cose, garbo, una certa postura e la cura del proprio corpo, alimenta un anelito costante al valore assoluto della bellezza. Avere cura del proprio corpo e adornarlo anche nello svolgimento delle pratiche quotidiane ha a che vedere con le norme che regolano la relazione quotidiana con l’altro, improntata al riserbo e all’eleganza nei modi e nei toni, ma non solo: più l’ambiente è ostile, più garbato deve essere il modo di calpestarlo. La boscaglia sahelianaè insidiosa, e solo l’eleganza posturale e gestuale permette di relazionarsi ad essa a schiena dritta.

Questo articolo è uscito sul numero 5/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.

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