È sottoterra che l’Africa orientale cerca il suo futuro energetico. Nell’alta temperatura della viscere della crosta terrestre che può alimentare le centrali geotermiche e fornire un flusso di corrente elettrica costante. Energia che può alimentare lo sviluppo affrancando il continente dai combustibili fossili e dall’idroelettrico.
Secondo quanto emerso nella 8a Conferenza geotermica del Rift, ospitata dal Kenya, i Paesi dell’Africa orientale hanno espresso l’urgente necessità di adottare misure per accelerare lo sviluppo geotermico come alternativa verde ed economica. L’obiettivo è aumentare la capacità installata di geotermia di oltre 2.500 MW entro il 2030.
In questo contesto, dai 500 partecipanti alla conferenza (esperti, governi, società civile, mondo accademico e rappresentanti del settore privato) è salita la richiesta di potenziare il Centro di eccellenza geotermico africano recentemente costruito a Naivasha, in Kenya, così come politiche specifiche con un preciso quadro normativo.
«L’Unione africana riconosce che lo sviluppo geotermico richiede cooperazione regionale, sviluppo di capacità, partecipazione del settore privato e istituzioni internazionali per investire nel geotermico nella regione», ha affermato Amani Abou-Zeid, Commissario dell’Unione africana per le infrastrutture e l’energia.
Attualmente, circa 600 milioni di persone in Africa non hanno accesso all’energia e altri 600 milioni dipendono dalle biomasse. «L’energia rinnovabile può cambiare e cambierà le sfide e la narrativa energetica africana – ha affermato Juliette Biao Koudenoukpo, direttrice regionale dell’Unep per l’Africa -. Le statistiche sull’uso dell’energia in Africa rivelano uno scenario preoccupante. Il continente ha il 13% della popolazione mondiale, ma la sua quota nel consumo globale di elettricità è inferiore al 3% e solo il 25% degli africani ha accesso all’elettricità. Oltre il 70% dell’Africa dipende dai combustibili tradizionali da biomassa».
Le fonti di energia geotermica attraversano Kenya, Tanzania, Uganda, Ruanda, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Gibuti, Etiopia, Zambia, Malawi, Mozambico e Madagascar, con un potenziale stimato di oltre 20.000 MW. Questa fonte energetica potrebbe integrare la produzione di energia rinnovabile a carattere intermittente come l’idroelettrico, l’eolico e il solare. È anche una fonte accessibile, economica e affidabile per una regione dipendente da un clima sempre più instabile e variabile.
Il Kenya è leader nella regione orientale anche grazie a grandi investimenti in strutture e ricerca. Attualmente il Paese è l’unico ad avere centrali geotermiche operative con una capacità installata totale di 823 MW grazie agli impianti di Olkaria ed Eburru.
Eritrea, Uganda, Tanzania, Gibuti, Malawi e Ruanda stanno valutando alcuni progetti. La più grande produttrice però potrebbe diventare l’Etiopia. Il Paese è stato pioniere di questo comparto. I primi studi sno infatti iniziati nel 1969 ed è inoltre favorita dal fatto di occupare la sezione più lunga della Rift Valley, la spaccatura geologica che vanta un potenziale geotermico stimato di 10.000 MW. Addis Abeba sta attualmente sviluppando il suo primo progetto di centrale geotermica nell’area intorno al vulcano Tulu Moye in Oromia. Inizialmente dovrebbe ricavare 50 MW per poi salire a 520 MW. Si stima che il sito inizierà la produzione di energia nel 2023.
Oltre a Tulu Moye, sono in corso anche i lavori di implementazione del progetto presso il sito del progetto geotermico di Aluto-Langano dove sono iniziati i primi lavori di esplorazione nel 1981, e anche se il sito ha già una centrale geotermica entrata in funzione nel 1998 con una capacità produttiva di 7.3 MW, l’impianto, è stato chiuso dal 2018 a causa di problemi tecnici. Ci sono poi altri due progetti di produzione di energia geotermica in varie fasi dell’analisi, ovvero Corbetti e Abaya, tutti situati all’interno della Rift principale etiope.
(Tesfaie Gebremariam)