Libere di nuotare

di AFRICA
Zanzibar

La celebre isola della Tanzania, conosciuta per le sue spiagge e i fondali da favola, cela una difficile condizione delle donne, costrette a subire discriminazioni e intimidazioni imposte dal sistema patriarcale. Ma ora le cose stanno cambiando, con costumi e tuffi

Il burqini, il costume integrale femminile che lascia scoperti solo mani, viso e  piedi, utilizzato da molte donne musulmane e al centro di polemiche in Europa (nel 2016 le amministrazioni di diverse località balneari in Francia lo vietarono perché considerato «una tenuta che ostenta l’appartenenza religiosa e non rispetta la laicità della nazione»), nell’isola di Zanzibar è invece lo strumento con il quale un gruppo di donne sta attuando una piccola rivoluzione e un’importante battaglia per l’emancipazione femminile.

Paradiso esotico?

Per comprendere come sia possibile che un semplice capo d’abbigliamento sia oggi uno strumento di lotta contro un sistema conservatore e arcaico, occorre fare un passo a ritroso e spiegare qual è la realtà dell’isola africana. Spiagge da cartolina e villaggi turistici, palme e pesci tropicali, sole tutto l’anno e la casa natale di Freddie Mercury: così le agenzie di viaggi dipingono quest’isola dell’Oceano Indiano, regione semiautonoma della Tanzania. Ma Zanzibar non è solo questo, anzi, al di fuori degli itinerari turistici rivela una situazione sociale complessa e punteggiata da problematiche soprattutto per quel che riguarda la condizione femminile.

Il 98% della popolazione abbraccia il credo islamico e il rigorismo religioso è da sempre una delle ragioni per cui alle donne di Zanzibar è proibito andare al mare e soprattutto nuotare. Ciò che può sembrare un paradosso – vivere circondati dal mare ma non avere alcun rapporto con l’acqua se non di paura – è in realtà una condizione con la quale, sino a pochi anni fa, le bambine, le ragazze e le donne zanzibarine hanno dovuto fare i conti. E non saper nuotare, o meglio, essere impossibilitate a farlo, ha causato anche diverse tragedie, come nel 2011, quando un traghetto affondò tra Zanzibar e Pemba e oltre 200 persone, per la maggior parte donne e bambini, morirono affogate.

Corsi di nuoto

Fu quel doloroso incidente a sconvolgere Khadija Sharriff, una donna di Zanzibar che decise allora di intervenire per evitare altre tragedie simili. Nel 2011 decise di dar vita al Pange Project con l’obiettivo di insegnare a donne e bambine dell’isola a nuotare, ad apprendere le tecniche di sicurezza in acqua e a come comportarsi in caso di naufragio.

Quando il progetto prese il via ufficialmente, nel 2013, vi aderirono solo in 20; oggi, a quasi sei anni dal lancio, Pange Project gestisce programmi su tutta l’isola e ha insegnato a nuotare a 7000 persone. «Zanzibar ha una società prevalentemente musulmana e molto conservatrice. Quando abbiamo iniziato i corsi di nuoto, gli anziani dei villaggi non riuscivano proprio a concepire che le loro figlie venissero in spiaggia e imparassero a prendere confidenza con l’acqua. Per loro era inaccettabile, inimmaginabile», spiega Khadija. Che poi chiarisce: «Abbiamo disegnato e confezionato i burqini in modo tale che le donne si sentissero a loro agio anche da un punto di vista culturale e religioso. Il burqini è stato accettato dalla comunità e, dopo che un importante capovillaggio ha deciso di mandare sua figlia ai corsi di nuoto, anche gli altri leader locali hanno seguito il suo esempio».

Rivoluzione dolce

Donne che mai si erano tuffate in mare hanno cominciato a nuotare e sono divenute a loro volta istruttrici, come ha raccontato alla Cnn Kazija Haji, 28 anni, insegnante di nuoto: «Non ho scelto una carriera standard per una donna musulmana. Ma sono molto felice di quello che faccio. È appagante e importante e lo faccio per me, per la mia famiglia e la mia comunità».

La fotografa californiana Anna Boyiazis ha vissuto con le donne del Pange Project e ha descritto con le immagini questa rivoluzione in corso nel cuore dell’Oceano Indiano. Donne con burqini gialli aggrappate a taniche di plastica imparano a restare a galla, altre si esercitano a soccorrere le colleghe in acqua durante simulazioni di primo soccorso, e poi ragazze e bambine che scherzano e giocano tra le onde. Le foto sono state esposte al festival di fotografia di Perpignan e l’autrice, intervistata dalle testate internazionali, si è così espressa: «Le lezioni di nuoto sfidano un sistema patriarcale che scoraggia le donne dal perseguire qualsiasi attività diversa da quella domestica. In acqua si sente questa contrapposizione tra la ricerca di libertà ed emancipazione da una parte, e il sistema imposto dal conservatorismo sociale dall’altra». Ha proseguito parlando dell’importanza del progetto e ha concluso: «A Zanzibar il burqini sta salvando la vita delle donne».

(testo di Daniele Bellocchio)

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