a cura di Marco Trovato, direttore editoriale
L’ondata dei più recenti colpi di stato in Africa occidentale e centrale ha la forza dirompente di uno tsunami destinato a lasciare a lungo i segni del suo passaggio. Ed è probabile che la sua propagazione non si arresterà e coinvolgerà altri territori e altri popoli. In Europa i golpe sono stati letti e raccontati come una sciagura che ha spazzato via le istituzioni democratiche, tradito le aspirazioni dei cittadini, incrinato le relazioni con l’Occidente, aperto la strada alla Russia di Putin. Ben diverse le letture fornite da analisti, attivisti e intellettuali dei Paesi africani in cui sono avvenuti i putsch, la gran parte dei quali ha salutato la presa di potere dei militari come una liberazione da regimi corrotti, incapaci, al soldo di potenze straniere.
Ogni situazione, certo, andrebbe analizzata nella sua specificità, non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ciò che sta accadendo in Sudan non ha nulla a che vedere con le situazioni di crisi del Sahel: a Khartoum è in corso da mesi una violenta battaglia – impossibile chiamarla “guerra civile” poiché a combattere sono soldati dell’esercito e delle forze paramilitari – tra due generali che si contendono il potere e hanno soffocato le ambizioni di libertà e di democrazia emerse dalla rivolta popolare contro il regime di Omar al-Bashir. Anche il golpe in Gabon, che ha sancito la fine della dinastia Bongo, al potere da cinquant’anni, è diverso: i militari qui non hanno annunciato alcuna svolta nei rapporti internazionali, alcuna rottura con la Francia, che nel Paese continua a detenere forti interessi (petrolio, manganese, legname, pesca). Questo è accaduto invece in Guinea, Burkina Faso, Mali e Niger, dove gli uomini di Parigi, civili e militari, sono stati costretti a fare le valigie, cacciati in malo modo dai golpisti, accompagnati alla porta con gli insulti di piazze rabbiose. I governanti destituiti in questi ultimi Paesi hanno pagato la loro incapacità di ristabilire la sicurezza nella regione, minata dall’insorgenza jihadista, e di offrire un futuro, una prospettiva, alle popolazioni, in gran parte costituite da giovani, che faticano a guadagnarsi da vivere. “Via i corrotti dai palazzi di potere!”, hanno urlato i manifestanti. “Via gli imperialisti! Evviva la Russia!” (Mosca non ha un passato coloniale da farsi perdonare e oggi incarna il nemico numero uno dell’Occidente).
L’appoggio popolare ai golpisti è comprensibile: le ricchezze celate nei territori di questi Paesi (oro, diamanti, bauxite, uranio…) non hanno portato benessere e sviluppo, ma hanno arricchito la casta dei politici che per lungo tempo hanno fatto affari con le società europee. Per questo la condanna occidentale alle svolte militari viene accolta con spregio e irritazione dalle stesse popolazioni africane che, a parole, noi vorremmo libere. Lo spirito che aleggia in questi Paesi è stato ben riassunto da un mio caro amico, Barthélémy, che non è un fine politologo, non ha studiato all’università: è un contadino del Mali e dal suo sperduto villaggio vede le cose con lucidità. «Per decenni abbiamo fatto ciò che l’Europa voleva”, mi ha scritto in un messaggio WhatsApp. «Siamo andati a votare quando c’erano le elezioni, e abbiamo stretto accordi economici e di cooperazione con gli ex colonizzatori. Risultato: siamo più poveri e meno sicuri di prima. Le nostre relazioni internazionali e il nostro modello economico hanno fatto gli interessi solo delle potenze occidentali, i cui leader oggi rilasciano commenti paternalistici nei nostri riguardi perché festeggiamo i golpisti e inneggiamo alla Russia. Ipocriti e razzisti. Non siamo bambini incapaci, marionette senza cervello. Siamo adulti, maturi, non abbiamo più bisogno di qualcuno che ci dica cosa fare. Vogliamo essere liberi di scegliere, di provare altre strade, anche di sbagliare».
Editoriale del numero di novembre-dicembre della rivista Africa