di Tommaso Meo
Non è ancora arrivato il giorno della verità e della giustizia per le vittime del massacro del carcere di Abu Salim a Tripoli. Qui, nel 1996, quando al potere c’era il rais Muammar Gheddafi, vennero giustiziati 1.269 detenuti, secondo le stime, a seguito di una rivolta.
Ci si aspettava un tanto atteso pronunciamento e invece lo scorso 15 giugno una corte d’appello della capitale libica si è dichiarata incompetente sul caso chiedendo che il fascicolo del processo passi a una corte militare.
La corte di Tripoli stava esaminando il caso da maggio 2021 ma, il giudice “ha stabilito che l’intero caso aveva un carattere militare”, visto che molti degli implicati appartenevano all’esercito. Il giudice per questo ha quindi deciso di trasferire l’intero caso a un tribunale militare competente.
Sul banco degli imputati ci sono figure importanti del passato regime: tra tutti spiccano l’ex capo dei servizi di intelligence e cognato dell’allora dittatore Muammar Gheddafi, Abdullah al Senussi, e l’ex capo dell’Agenzia di sicurezza interna, Mansour Daou. La storia del massacro di Abu Salim è lunga e travagliata, piena di insabbiamenti e incertezze, ma ancora senza nessun responsabile. La dinamica dei fatti, frutto soprattutto di alcune testimonianze, ricostruisce un quadro abbastanza preciso dei fatti.
Il 28 giugno 1996 scoppiò una rivolta di detenuti ad Abu Salim, la più grande prigione del Paese, che ospitava in tutto 1.700 persone. I detenuti protestavano contro le condizioni di detenzione e le restrizioni sulle visite dei familiari.
La sicurezza del carcere riuscì a sedare la rivolta sparando colpi di arma da fuoco e uccidendo sei persone. La direzione accettò di incontrare i rappresentanti dei prigionieri e promise che alcune loro richieste sarebbero state accolte. La mattina successiva, centinaia di prigionieri provenienti furono portati in un cortile della prigione. Qui uomini armati sui tetti aprirono il fuoco con armi automatiche per almeno un’ora.
Un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) ha rivelato che le autorità iniziarono a informare alcune famiglie della morte dei loro parenti solo nel 2001, senza però restituire i corpi né fornendo dettagli sulla causa dei decessi. Alcune famiglie hanno raccontato a Hrw di avere portato cibo e vestiti alla prigione per settimane, ignari della morte del loro cari.
La maggior parte delle vittime fu sepolta in fosse comuni nel cortile della prigione di massima sicurezza, ma i corpi furono poi spostati e mai identificati con certezza. Anche per questo negli anni successivi è diventato polarizzante nel Paese ed è cresciuta la narrazione secondo cui il massacro non avvenne mai o fu molto ingigantito. Nel 2016, tuttavia, l’ong libica Human Rights Solidarity (Hrs), pubblicò quelli che sostiene essere i nomi delle persone uccise nel massacro del 1996.
Il massacro di Abu Salim contribuì anche a dare il via alla rivolta del febbraio 2011 che ha rovesciò Gheddafi. L’arresto di un leader dell’associazione delle famiglie delle vittime il 15 febbraio a Bengasi provocò infatti proteste che si diffusero rapidamente quando il governo rispose con la forza. Dal 2012, ogni giugno, le famiglie delle vittime celebrano la ricorrenza del massacro senza timore di repressioni.
La storia giudiziaria di Abu Salim, iniziata solo qualche anno fa, è già stata piena di ostacoli. Nel 2019 un tribunale libico aveva dichiarato il caso inammissibile, a causa della prescrizione, assolvendo di fatto tutti i 79 imputati. La Corte suprema, dopo un ricorso delle famiglie delle vittime, ha poi ribaltato la sentenza e successivamente consegnato il fascicolo a un nuovo tribunale. Nel frattempo, Hrs sta cercando di far ammettere il caso davanti alla Corte penale internazionale come caso di sparizione forzata di massa. Ora, con l’ennesima svolta, il rinvio deciso dalla corte d’appello, allontana un’altra volta una ricerca della verità che dura da 26 anni.