A due giorni dal voto presidenziale, senza una lista ufficiale dei candidati e con la decisione della Commissione elettorale di chiudere i suoi uffici locali in tutta la Libia, è ormai certo che le tanto attese elezioni della riunificazione non si terranno nei tempi prestabiliti dalla roadmap sponsorizzata dalle Nazioni Unite. Per votare si sono registrati quasi tre milioni di cittadini.
La notizia ufficiale del rinvio delle elezioni – diffusa poco fa con un comunicato della commissione parlamentare incaricata di monitorare il volo – può essere uno shock per il Paese, secondo Antonino Pellitteri, professore ordinario di storia dei Paesi arabi ed islamistica all’università di Palermo, non c’è molto di cui stupirsi. “A parole tutti dicono che vogliono l’unità della Libia, ma nei fatti ognuno si ritaglia il proprio orticello da governare” commenta.
La situazione che delinea, e che ha fatto naufragare il processo elettorale, mischia vecchie e nuove tensioni. “Coloro che hanno patrocinato questa operazione elettorale – spiega – hanno pensato che il governo di unità nazionale di Tripoli fosse in grado di ricucire i rapporti con la parte orientale ma quest’idea è stata fallimentare”. Le tensioni tra le istituzioni della Tripolitania e il parlamento di Tobruk, accusato di essere manovrato dal generale Khalifa Haftar, sono alla base dell’impasse delle ultime settimane. Tra gli esempi più lampanti c’è il mancato consenso sulla legge elettorale per andare al voto, unilateralmente approvata dalla camera di Tobruk.
Le divisioni in Libia non sono solo istituzionali, ma interessano ancora tutta la società. “Un altro dei problemi – spiega il professore – sono le milizie che non parteggiano per alcun candidato e hanno tutto l’interesse a mantenere le posizioni di potere che hanno acquisito in questi ultimi dieci anni”. In Libia non ci sono però soltanto milizie locali ancora pesantemente armate ma anche migliaia di mercenari stranieri a contribuire alla militarizzazione del Paese. I contractor russi e turchi se ne sarebbero dovuti andare prima del voto ma il piano per la loro uscita dal Paese non è mai decollato. Sia Mosca che Ankara hanno interessi economici e strategici nel Paese e se non hanno ostacolato apertamente il voto, non hanno nemmeno favorito il processo elettorale.
“La confusione di recente è stata ancora aggravata dal fatto che sono migliaia i candidati al parlamento, senza un partito dietro, e un centinaio anche quelli alle presidenziali”, continua Pellitteri. Molti appartengono al vecchio establishment o sono miliardari come il primo ministro Abdul Hamid Dbeibah, ma le maggiori preoccupazioni le hanno destate le candidature di Haftar e di Saif al-Islam, figlio del defunto rais Muammar. Proprio le diatribe sull’ammissione o meno di questi ultimi due nella corsa a presidente sembra abbia fatto ritardare in modo decisivo le operazioni della commissione elettorale.
In ogni caso, per il docente, anche se si fosse andati al voto, “sarebbe valso a ben poco”. Le elezioni “sarebbero servite di più all’Occidente, agli Stati Uniti e ai Paesi dell’Unione Europea che sostengono questo governo voluto a Ginevra qualche mese fa”. Per la Libia tenere elezioni in queste condizioni “non è risolutivo”, continua Pellitteri, perché non farebbero sparire da sole “tutti i problemi antichi e nuovi che si sono acutizzati nell’ultimo periodo”, anzi. “Un risultato anche accettabile dal punto di vista formale potrebbe diventare uno strumento per nuove divisioni”. Per il professore dell’università di Palermo sarebbe stato “necessario prima stabilizzare il Paese, cominciando dal basso per tentare di ricucire queste fratture, e poi tenere le elezioni”. In assenza di un processo di questo tipo anche un rinvio a breve termine del voto, tra gli scenari possibili, “potrebbe ugualmente servire a poco”