Altri quindici migranti morti in mare al largo della Libia. Ma stavolta non sono annegati come migliaia di altri. Non sono morti dopo qualche minuto di concitata disperazione nell’oscurità dell’acqua. Questa volta si sono spenti un poco alla volta, dopo giorni di sofferenza inflitta dalla fame e soprattutto dalla sete, in una lentissima agonia protrattasi in mezzo al mare per quasi due settimane, senza protezione, in preda al sole e alle intemperie. Per tredici di loro la tomba è il mare, dove sono stati gettati, quando sono morti, dai compagni di viaggio ancora in vita.
È l’ultima tragedia della migrazione e del traffico di esseri umani che è emersa attraverso racconti dei sopravvissuti filtrati da un portavoce delle Forze di sicurezza di Misurata e da una fonte di polizia della città portuale libica. Il barcone di legno con 25 migranti migranti di diverse nazionalità africane era salpato da Sabrata, un noto punto di partenza per il traffico di esseri umani, circa 70 chilometri in linea d’aria a ovest di Tripoli.
Non è chiaro perché, ma il motore è andato in avaria e l’imbarcazione è andata alla deriva per 11 o 12 giorni, trascinata dalle correnti fino al largo di Misurata, 250 km più a est.