di Giulia Filpi
Sei mesi dopo la tempesta Daniel, che causò il crollo di due dighe a monte della città di Derna, uccidendo più di 4000 persone e causando migliaia di scomparsi e oltre 40mila sfollati, le autorità libiche devono ancora fare chiarezza sulle responsabilità politiche e militari del disastro.
La denuncia arriva da Amnesty International, in un rapporto che accusa il Governo di unità nazionale (Gnu) con sede a Tripoli e le Forze armate arabe libiche (Laaf), che controllano l’area di Derna, di non aver diffuso avvisi adeguati e di non aver preso alcun provvedimento per mitigare gli effetti del ciclone.
Secondo gli esperti sentiti dall’ong, l’elevato numero di vittime fu causato da istruzioni contraddittorie, da allarmi inadeguati e dall’imposizione del coprifuoco su alcune delle zone tra quelle che sarebbero state poi colpite dalla tempesta. Alcuni abitanti ricevettero l’avviso di evacuare ma zone come Wadi Derna furono invece trascurate. Dieci minuti dopo il crollo delle dighe, il ministro delle Risorse idriche sollecitò la popolazione a valle a evacuare, ma fu troppo tardi. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha dichiarato che con allarmi ed evacuazioni all’altezza della situazione l’elevato tributo di vite umane avrebbe potuto essere evitato.
Il rapporto “In seconds everything changed – Justice and redress elusive for Derna flood survivors” (In pochi secondi cambiò tutto – La mancanza di giustizia e risarcimenti per i sopravvissuti di Derna) si basa sulle testimonianze di 65 persone colpite dall’inondazione o coinvolte nei soccorsi, sull’esame di documenti e dichiarazioni ufficiali e sulle relazioni di organi governativi e agenzie delle Nazioni Unite.
Secondo Amnesty International, il Governo di Unità Nazionale e le autorità che controllano la Libia orientale non hanno garantito accesso tempestivo ed equo ai soccorsi e ai risarcimenti in seguito all’uragano Daniel. Sebbene 13.000 persone abbiano ricevuto compensi economici, alcune famiglie sfollate nella Libia occidentale, così come migranti e rifugiati, sono state escluse. I ritardi e la paura di rappresaglie da parte delle Laaf, le forze armate facenti capo a Khalifa Haftar, hanno spinto altre persone, soprattutto quelle sospettate di opporsi alle autorità locali, a non chiedere aiuti.
I migranti e i rifugiati colpiti dall’inondazione, denuncia l’ong, non hanno ricevuto assistenza per tornare negli stati d’origine né, in patria, e le famiglie dei morti e dei dispersi non hanno ricevuto informazioni sui loro cari. Alcune misure adottate dal Gns, come gli aiuti ai bambini rimasti orfani e l’abolizione delle marche da bollo per rifare i documenti d’identità, sono state inoltre riservate ai libici. Infine, Amnesty denuncia che le autorità de facto della Libia orientale avrebbero ordinato ai residenti dei sette campi di sfollati interni di Tawergha a Bengasi e dintorni, dove circa 350 persone della minoranza Tawergha vivevano da oltre un decennio, di evacuare a causa delle condizioni meteorologiche avverse. A differenza di altri residenti negli stessi quartieri anch’essi evacuati, alle famiglie Tawergha non sarebbe stato permesso di ritornare.
Dopo il disastro, le Laaf, forze armate facenti capo a Khalifa Haftar, e altre forze ad esse affiliate, hanno dato la caccia alle persone che avevano criticato la mancata prontezza delle autorità e la risposta alla crisi: almeno una persona è tuttora detenuta arbitrariamente. La denuncia arriva dal rapporto pubblicato questa settimana da Amnesty International in occasione dei sei mesi dalla tempesta Daniel.
All’indomani della catastrofe, secondo l’ong, le Laaf “sono tornate alle ben consolidate tattiche brutali per stroncare il dissenso e limitare lo spazio per la società civile e l’informazione indipendente. Insieme ai gruppi armati loro alleati, hanno arrestato almeno nove persone che avevano criticato pubblicamente le autorità per la gestione della crisi o avevano preso parte, il 18 settembre, a una manifestazione di protesta”.
Il 16 settembre l’Agenzia per la sicurezza interna, affiliata alle Laaf, ha arrestato Al-Numan al-Jazwi, un attivista che stava filmando la distribuzione degli aiuti. È ancora in carcere, senza accusa né processo e senza poter incontrare avvocati e familiari.
A sei mesi dalla tempesta, Amnesty International ha condiviso le sue conclusioni e raccomandazioni con l’ufficio del Procuratore di Tripoli, col capo delle Laaf e col primo ministro ad interim del Governo di stabilità nazionale (Gns), che ha sede nella Libia orientale ed è alleato con le Laaf. “Ha risposto solo il Procuratore – fanno sapere dall’ong – confermando l’avvio di indagini su 16 attuali o ex funzionari, tra i quali il presidente e due membri del Consiglio municipale di Derma così come i responsabili della gestione delle acque, delle dighe e della ricostruzione di Derma. Le accuse nei loro confronti sono di negligenza e rifiuto di compiere il proprio dovere. Quattordici dei 16 indagati sono in detenzione preventiva”.
“Tuttavia – è il commento dell’associazione – le indagini non stanno riguardando gli alti livelli di comando militare e politico e i potenti gruppi armati. Vi è il timore che riusciranno a farla franca, beneficiando del generale clima d’impunità per i crimini di diritto internazionale e per le altre violazioni dei diritti umani che si verificano in Libia. Anziché essere chiamati a rispondere di tali crimini, i membri delle milizie e dei gruppi armati sono stati man mano integrati nelle istituzioni statali e ricompensati con encomi, stipendi e ruoli di potere”.