di Enrico Casale
Da più di cinque anni ormai la Libia vive in uno stato di grande instabilità politica ed economica. Dal 2011, con la caduta di Muammar Gheddafi, il Paese è in preda a una forte tensione che è andata caratterizzandosi sempre più come uno scontro tra il Governo di Tripoli, sostenuto dalla comunità internazionale, e quello di Bengasi, appoggiato da Egitto, Francia e Russia. In questo contesto si è infiltrato il fondamentalismo islamico che, sebbene sconfitto nelle regioni settentrionali, si sta spostando in quelle meridionali. Abbiamo parlato della situazione libica con Michela Mercuri, professore di Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università degli Studi di Macerata.
Su quali forze locali si regge il Governo di Tripoli? E quali nazioni straniere e organizzazioni internazionali? Perché lo sostengono?
A livello locale, tra gli attori più rilevanti a livello militare, il Governo di unità nazionale di Sarraj può contare sull’appoggio delle brigate di Misurata, uno dei più forti gruppi armati della Libia. Si stima che siano composte da oltre 200 milizie, per un numero complessivo di effettivi vicino ai 40mila uomini. Non appena arrivato a Tripoli (lo scorso 30 Marzo) aveva poi incassato la fiducia delle Petroleum Facilities Guards guidate da Ibrahim Jadhran, che controllavano i principali insediamenti petroliferi del paese, ora conquistati dalle milizie d Haftar. Aveva poi l’appoggio della Banca centrale libica e della Lybia National Oil Corporation (Noc). Oggi il panorama è ben diverso ed è difficile dire quali di questi attori lo sostengano ancora. A livello regionale ha potuto contare fin qui sul sstegno della Turchia e del Qatar. Ma i due potrebbero anche abbandonare il “premier unitario” preferendo gli islamisti vicini all’ex premier di Tripoli Khalifa Ghwell. A livello interazionale (al di là della convergenza di facciata di tutti gli attori sull’accordo unitario dell’Onu) realisticamente ha avuto fin qui l’appoggio di USA e Italia. Obama ha supportato le milizie di Misurata contro lo Stato islamico a Sirte con più di 500 raid aerei. La presidenza americana di Donald Trump sembra destinata a spostare l’asse verso una maggiore convergenza con la Russia e il suo sistema di alleanze regionali, con un conseguente passaggio nell’ala di Tobruk.
In Tripolitania quali interessi ha l’Italia? E come li tutela?
Dalle coste tripoline partono l’80% dei migranti che arrivano in Italia. L’Italia è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti, mentre sono italiane molte delle attività estrattive off shore ancora realizzate nel Paese a largo delle coste tripoline. Da ciò si evince l’importanza per il nostro Paese di avere un piede a Tripoli. A livello governativo, però, le azioni di tutela sono piuttosto discutibili. Al momento quello di Sarraj è un «governo che non governa» e che non controlla molti dei gruppi e delle milizie presenti nella capitale. Qualche esempio. Il traffico dei migranti, che costituisce un terzo del Pil della Tripolitania, passa in gran parte a Sabrata ed è gestito da bande criminali e da miliziani a cui Sarraj non può impartire ordini se non vuole che gli si rivoltino contro. A Tripoli regna l’anarchia. Dovremmo chiederci che valore hanno gli accordi (come quello sui migranti) che abbiamo siglato con questo governo? Vale la pena andare avanti in questa direzione? L’unica strada potrebbe essere quella di far valere la nostra posizione sul terreno (visto che, con la nostra ambasciata, siamo l’unico punto di contatto ufficiale occidentale a Tripoli) per svolgere un ruolo di mediazione tra alcune istanze tripoline e Haftar con i suoi alleati regionali e internazionali.
Il Governo di Tobruk da chi è sostenuto a livello internazionale? Perché?
Dalla Francia perché l’appoggio ad Haftar è funzionale ad accedere alle riserve petrolifere della Cirenaica. Parigi vorrebbe riprendere le attività estrattive e allargare il raggio di quelle esplorative avviate nel 2011 dopo la caduta del rais. Inoltre vuole vendere armi. Lo sta già facendo attraverso triangolazioni con il Cairo e con le garanzie dei sauditi. È sostenuto anche dalla Russia per vari motivi così sintetizzabili: economici, geopolitici e geostrategici. In primo luogo, da un punto di vista economico, Putin non ha certo bisogno del gas e del petrolio dalla Libia, ma non disdegna di vendere know-how e tecnologie da saggiare nell’Est ricco di petrolio. Inoltre Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra sia contro gli islamisti e le truppe di Misurata sia contro il Governo di unità nazionale. La Russia ha tutto l’interesse a fornirgliele. In termini di proiezione mediterranea la Libia è un tassello della partita russa in Medio Oriente e Nord Africa. Haftar, baluardo del laicismo, è il complemento ideale all’asse con al Sisi e, forzando un po’ la mano, anche con Damasco. Infine, la questione dello sbocco sul mare. La Russia, intervenendo militarmente nel conflitto siriano accanto ad Assad, si è assicurata, per lo meno, il mantenimento del porto di Tartus, Perché non approfittare di Haftar per ricavarsi un altro «porto sicuro» nella Cirenaica?
Quali interessi ha l’Italia in Cirenaica? Come li tutela?
La Cirenaica ha più del 70% delle riserve di petrolio del Paese. Anche se i nostri interessi energetici sono prevalentemente a Tripoli e dintorni è chiaro che l’Italia non vuole restare indietro neppure nella partita che si gioca nell’Est del Paese. Non è una caso se in una sua recente intervista al «Corriere della Sera» Haftar ha detto chiaramente che, cito le sue parole, «il numero due della vostra intelligence è un mio caro amico, viene spesso a trovarmi». Qui, però, a differenza della Tripolitania, l’Italia non gioca da sola ma deve «mettersi in fila». Come già accennato la Francia, la Russia ma anche la Gran Bretagna, solo per fare alcuni nomi, hanno già stretto accordi con Haftar ed hanno così guadagnato la primacy.
È possibile un’intesa tra Tripoli e Tobruk? Su quali basi?
Difficile ma non impossibile. Bisogna tenere conto, però, per lo meno al momento, che Haftar è l’uomo forte della Libia e gode di alleati importanti. Una soluzione può passare solo per un accordo che preveda un ruolo per il generale della Cirenaica. Il rischio, però, è che potrebbero restare fuori molti gruppi islamisti (invisi ad Haftar). Senza un accordo con alcune fazioni islamiste, per lo meno con quelle moderate, nessuna intesa potrebbe reggere. Da questo punto di vista l’Italia potrebbe sfruttare la sua presenza a Tripoli e il capitale di fiducia che ha con alcuni gruppi della zona per mediare un qualche dialogo. Al di là di una intesa tra i due «governi» sarebbe, però, indispensabile anche una vision inclusiva nei riguardi della componente locale, non solo delle tribù, ma anche delle città Stato. I sindaci ed i comuni sono tra le poche istituzioni ancora funzionanti perché dotati di una relativa legittimità politica e di un controllo effettivo nel proprio territorio di riferimento. Tali istanze non sempre si riconoscono nei due governi e sarà pertanto necessario dialogare con questi attori, parallelamente al dialogo tra Tripoli e Tobruk.
Il fondamentalismo islamico è veramente stato battuto? O si sta solo riposizionando nel Fezzan?
I miliziani dell’Isis a Sirte – circa tremila prima dell’inizio dell’offensiva – non sono stati tutti uccisi o catturati. Molti sarebbero fuggiti verso il Sud del Paese nel Fezzan. Da qui, grazie anche ai fiorenti traffici della zona, potrebbero riorganizzarsi. Non c’è solo Isis. Nel deserto libico è stabilito anche il nuovo comando logistico e organizzativo di al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi). Qui i servizi segreti di Algeri hanno localizzato campi e basi logistiche dei qaedisti attivi in territorio algerino e nel Sahel e fonti di stampa estera hanno in più occasioni raccontato di incursioni condotte oltreconfine dalle forze speciali di Bouteflika per annientarli. Da ciò risulta evidente che dire di aver espulso l’Isis da Sirte non significa aver risolto il problema del terrorismo nel Paese.