La presenza della Chiesa cattolica può sembrare quasi aneddotica in Libia, eppure ha un suo senso. Queste immagini girate nella chiesa di San Francesco a Tripoli venerdì scorso mostrano alcuni momenti della messa (perché in Libia il giorno festivo è il venerdì, e ci si adegua) e del successivo ritrovarsi tra i fedeli. Nessuno di loro è locale – non esistono cristiani libici, a quanto è dato sapere –: si tratta soprattutto di africani subsahariani e di filippini, le due maggiori aree di origine, come spiega George Bugeja, il vicario apostolico.
La consistenza di questa minuscola Chiesa è presto detta: «Arriviamo a essere complessivamente circa 3000 credenti su 6,3 milioni di abitanti – diceva pochi giorni fa mons. Bugeja ad Avvenire –. Tuttavia, negli ultimi mesi molti stanno lasciando la Libia avvalendosi dei programmi di rimpatrio». Quanto ai luoghi di culto, sono due in tutto: nella capitale è rimasta questa chiesa (la cattedrale è trasformata in moschea), a Bengasi l’altra. Il personale religioso si riduce, oltre al vescovo, di origine maltese – succeduto tre anni fa all’italiano Giovanni Martinelli e come lui francescano –, a un altro frate e a otto suore di Madre Teresa.
Qual è dunque il senso di questa presenza? Essere «presenza di riconciliazione, sollecitando la fratellanza reciproca». Del resto, «ci sentiamo accolti e liberi di essere cristiani. È vero che siamo una piccola comunità, ma non nascosta. Siamo riconosciuti ufficialmente dalle autorità governative. La Santa Sede ha ristabilito le relazioni diplomatiche con la Libia nel 1997».
In concreto, c’è soprattutto la presenza dei migranti, per i quali in particolare operano la Caritas e «un Social Service con la presenza di un medico e di alcuni infermieri per assistere i più bisognosi».
Certo «come comunità cristiana non incoraggiamo i migranti ad attraversare il Mediterraneo – sottolinea il vescovo –. Non si può spingere alcun uomo, donna o bambino a rischiare la vita. Quando scopriamo che qualcuno ha intenzione di partire, proviamo a dissuaderlo».
In questo breve video, ascoltiamo anche un nigeriano, Michey Olusiahna, che emozionato fino alle lacrime racconta qualcosa della sua dolorosa esperienza: «Mi hanno chiesto il mio passaporto, ho dato loro il mio passaporto. Hanno chiesto: “Hai il visto?”, ho detto di sì. “Sei un residente?”, ho detto di sì. Hanno detto “ok”, ma che dovevano controllare nel sistema. Quando George [il vescovo] mi ha dato 15.000 dinari [la cifra che volevano] ho pagato, e loro ne hanno chiesti 35.000. Io non li ho, non li ho… Quindi ho chiamato mia moglie e abbiamo venduto molte cose di casa, la tivù al plasma, il condizionatore, un sacco di cose. Abbiamo raccolto altri 10.000 dinari, con l’aiuto di mio fratello…».