La regione congolese del Kivu è già uscita dai radar dei grandi media. Ma restano i problemi di sempre. Nelle miniere d’oro le donne rappresentano la categoria più bassa e discriminata della piramide estrattiva. Passano le giornate a setacciare la terra, a spaccare pietre, a trasportare sulle spalle fardelli pesantissimi. Sono oggetto di vessazioni insistenti. Spesso per lavorare sono costrette a negoziare l’accesso ai siti offrendo prestazioni sessuali. Alcune di loro, come Émilienne e Angélique, hanno organizzato il riscatto delle loro colleghe del Kivu, e hanno assunto il ruolo di paladine dei diritti calpestati delle minatrici
di Eleonora Vio – foto di Ines Della Valle
Mani ruvide e callose trasportano manciate di pietre dalle profondità della terra fino all’imboccatura di una delle centinaia di cave che costellano la collina. Una donna magra e rugosa, con un lungo vestito e l’elmetto fluorescente, si affretta a dividerle. Accanto a lei, decine di colleghe con le gonne bucate e le infradito ai piedi, gettano le pietre migliori dentro ceste sfilacciate e se le caricano sulle spalle. «Le portiamo lassù, dove avviene la frantumazione», spiega Émilienne Intongwa, 60 anni, proprietaria di una piccola cava nel sito minerario di Kamituga, una delle maggiori riserve d’oro del Sud Kivu.
Parrucca arancione calata sulla testa e ombretto viola a incorniciarne gli occhi, Émilienne è l’esempio lampante di come l’estrazione artigianale possa talvolta offrire alle donne delle opportunità di riscatto. «Le vedi queste striature bianche e nere? Indicano la presenza d’oro», spiega, aprendo la sua piccola mano ossuta. «Quando posso, pago i motociclisti perché trasportino le pietre a 12 chilometri da qui, altrimenti sono le donne a percorrere tutto il tragitto fino al luogo del concassage». In questo gigantesco formicaio che è Kamituga, uomini e bambini discendono all’alba nelle cave, spariscono nelle viscere buie della terra per estrarre i minerali. In superficie, le donne si radunano alle nove del mattino e, recuperato il materiale, si sparpagliano lungo le rive di torbidi fiumiciattoli, per verificare la natura delle pietre raccolte. A loro spettano diverse mansioni: il trasporto, il lavaggio e la selezione dei minerali.
A colpi di martello
Prima di scendere per il tortuoso sentiero che porta alle cave, si scorgono alcune baracche fatiscenti. Ne fuoriesce un rumore martellante. Dentro, donne magre ed esauste siedono per terra a gambe incrociate. Sono le mamas twangaises, a cui spetta il compito di frantumare i massi manualmente.
Con pesanti martelli di legno dalla punta metallica, battono ripetutamente le pietre di quarzo, mentre il gestore del sito ne osserva compiaciuto i movimenti. Queste donne rappresentano la categoria più bassa e discriminata della piramide estrattiva. «Ogni giorno cammino due ore per venire fin qui», dice Nema Muyengo, con il sudore che le cola dalla fronte. «L’unica cosa che faccio è frantumare pietre, e non posso fare altrimenti: devo badare da sola alla mia famiglia. A volte neppure mi pagano». Spesso le mamas twangaises sono costrette a negoziare l’accesso ai siti offrendo prestazioni sessuali e, persino in quel caso, il compenso (che non supera mai i 3 euro al giorno) è garantito solo se le pietre contengono oro. Come non bastasse, il quarzo è tossico e a decine le donne vengono ricoverate ogni mese per tubercolosi.
Un’eroina
Émilienne è famosa non solo per essere stata la prima minatrice e proprietaria di una cava a Kamituga, ma soprattutto per aver assunto il ruolo di paladina dei diritti calpestati delle minatrici. Le difficoltà che ha dovuto affrontare nella vita le sono servite di lezione. «Mio marito è stato rapito nel 1996, durante la prima guerra congolese, e non ho più saputo nulla di lui – racconta con sguardo imperscrutabile –. Siccome fino a quel momento lavoravo nei campi, che sono passati nelle mani dalle milizie, mi sono dovuta reinventare». È allora cominciata la sua carriera nel settore minerario: «Era la prima volta che gli uomini vedevano una donna al lavoro nei siti e cominciarono dapprima a darmi dell’ermafrodita, e poi ad accusarmi di essere una strega» (quindi con il rischio di essere arsa viva). «Per avere la protezione dei capi locali – spiega con il suo solito tono di voce placido – ho contratto molti debiti». Anche il lavoro in sé si dimostrò tutt’altro che semplice. «Finché non ho raggiunto accordi solidi con i minatori, venivo derubata di continuo. E anche le mie collaboratrici erano oggetto di vessazioni insistenti. Tante hanno avuto maternità indesiderate… Per questo ho creato Comifem, un’associazione di sole donne, che si occupa dei nostri diritti legali, riproduttivi e lavorativi».
L’unione fa la forza
I congolesi sono abituati a creare network e associazioni su base etnica o religiosa, ma le donne del settore minerario ne sono spesso escluse, perché costrette a trascorrere gran parte del tempo nei siti. Potendo contare su un’agenda pensata per loro, Comifem consente alle donne di trovare il tempo sia per lavorare sia per socializzare con le compagne. «Se un minatore abusa di una di noi, noi copriamo le spese mediche. E cerchiamo di portare il caso in tribunale – spiega Émilienne con aria fiera –. A volte siamo riuscite persino a incastrare il colpevole».
Oltre al suo lavoro “sporco”, che continua a svolgere con incredibile tenacia, da piccola imprenditrice qual è Émilienne non smette di puntare in alto. Le ci sono voluti oltre dieci anni per raccogliere la somma necessaria ma, finalmente, è arrivato per lei il momento di costituire la prima cooperativa femminile della provincia. «Un giorno il settore artigianale sarà regolato dalla legge. E le donne, riunite in cooperativa, potranno far valere i loro diritti: estrarranno e venderanno minerali allo stesso prezzo e con gli stessi benefici degli uomini», spiega, riferendosi a come il sistema sia oggi ancora fortemente discriminatorio. «Quel che sto facendo è l’inizio di una piccola rivoluzione».
Su la testa
A 450 chilometri di distanza, nel Nord Kivu, c’è chi si è spinta oltre. Come Angélique Nyirasafari che, in soli quattro anni, è diventata una delle commercianti più in vista della regione. Sfrontata ed elegante, Angélique è la seconda di otto figlie. «Alle mie sorelle interessava solo sposarsi e avere figli. Io sono l’eccezione – dice in uno dei pochi momenti di calma della giornata –. Non volevo accasarmi prima di finire gli studi e mio padre mi ha supportato». Fino al 2015 lavorava nel settore umanitario. Poi, con i risparmi si è messa prima a comperare minerali da piccoli commercianti e a rivenderli a Goma, il capoluogo della provincia, quindi a trattare direttamente con i minatori nei siti. Invece di pensare solo a sé, da quando è entrata nel settore minerario Angélique combatte per migliorare gli standard di vita anche delle altre donne.
L’idea di mobilitarsi le è venuta durante la prima Conferenza nazionale sulle donne nelle miniere, tenutasi a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, nel 2015, e organizzata dalla Banca Mondiale con il governo congolese. È in quell’occasione che oltre 150 lavoratrici del settore estrattivo – dalle piccole minatrici alle grandi commercianti, passando per le attiviste e le lavoratrici statali – hanno gettato le basi per la nascita del primo sindacato femminile, il “Network nazionale di donne nelle miniere”.
Una strada lunga
Sempre lì, Angélique ha deciso di creare “Dinamica per le donne nel settore minerario”, una cooperativa impegnata nella difesa delle minatrici di Masisi, un territorio ricco di coltan e cassiterite, metalli preziosi alla base dell’industria elettronica globale. «Quando nella nostra società una donna ha delle qualità, le persone la offendono chiamandola “transessuale” – intona Angélique di fronte a un gruppo di socie della cooperativa –. Cercheranno di costruire stereotipi su di voi, ma io sono la prova vivente che le cose possono cambiare».
Da madre di sei figli e imprenditrice rispettata, Angélique è un modello da seguire. «Sono fiera di voi, perché da umili minatrici, mettendo da parte pochi soldi per volta, vi siete costruite una vostra indipendenza». Per quanto le associazioni minerarie siano strumenti importanti per la crescita delle donne, il viaggio che le minatrici congolesi devono compiere per ottenere la piena emancipazione all’interno del settore è ancora lungo, e non può prescindere dalle istituzioni. «Il nostro Paese è una giungla dove impunità, cattiva amministrazione e ingiustizia sono dappertutto – sostiene Angélique, con lo sguardo severo –. Il rispetto qui si compra e, chi, come gran parte delle donne, non ha i soldi, non viene ascoltato».
(Eleonora Vio – foto di Ines Della Valle)
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 4/2020 per acquistare una copia della rivista visita l’e-shop