di Marco Trovato
Nell’immaginario collettivo, la parola “immigrato” evoca una persona povera e dalla pelle scura che sbarca sulle coste italiane. Eppure la gran parte degli immigrati non è giunta via mare e i subsahariani rappresentano solo il 15% degli stranieri in Italia (le comunità più numerose provengono da Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina). Il linguaggio tradisce gli stereotipi, come avviene del resto con il termine “extracomunitario” (non appartenente all’Ue), che mai verrebbe associato a uno svizzero o statunitense.
Meno di un immigrato su tre è musulmano, eppure leader politici e commentatori agitano la minaccia islamica all’identità nazionale. Mettono in guardia dalla “emergenza sbarchi” benché i numeri li smentiscano: nel 2021 gli arrivi sono stati 67.040, nulla di inaudito (nel 2014-18 se ne registrarono tra i 110.000 e i 180.000 l’anno).
Ben altro dovrebbe scandalizzarci: le tragedie nel Mediterraneo (benché il flusso dei migranti sia diminuito, il tasso di mortalità delle traversate è cresciuto), gli accordi vergognosi siglati dal nostro governo con la Libia e dalle autorità europee con la Turchia, i muri coi fili spinati presidiati dai militari e l’uso della forza per respingere i migranti ai confini dell’Unione, in spregio al rispetto dei diritti umani.
Sbraitano contro “l’invasione dei migranti” a dispetto dell’evidenza. In Italia abbiamo circa cinque milioni e mezzo di stranieri, una quantità largamente assorbibile, peraltro equiparabile al numero di italiani emigrati e attualmente residenti all’estero: l’Italia non ha problemi di invasione, semmai di… evasione dei suoi giovani. Oltretutto chi arriva nel nostro Paese non è il più povero: il viaggio costa, è un investimento che in pochi possono permettersi.
Il 93% degli emigrati subsahariani non lascia il continente: cerca fortuna in altri Paesi africani, il più delle volte rimane nella propria regione. Sudafrica, Nigeria e Costa d’Avorio sono più attraenti e facili da raggiungere, ma la sindrome dell’assedio di cui soffriamo stravolge la nostra percezione. Il guaio è che nel dibattito pubblico il fenomeno migratorio viene spesso ridotto ad argomento da rissa. Contano le urla isteriche, la propaganda intrisa di pregiudizi, le fake news. C’è da scommetterci: passata l’emergenza sanitaria, ritorneranno le speculazioni politiche sulla minaccia straniera.
Ci ostiniamo a interrogarci su come frenare l’arrivo dei migranti. Ma la domanda da porci è un’altra: possiamo fare a meno di loro? La risposta è no. Gli studi demografici ci ricordano che l’Italia (la cui popolazione, 46,7 anni di età media, è la più vecchia d’Europa) ha un tasso di natalità ai minimi storici e necessita di nuovi ingressi costanti per compensare la riduzione della popolazione attiva.
Il nostro Paese è destinato a spopolarsi e invecchiare. Nel 2050 i cittadini italiani saranno 6 milioni meno di oggi, e la metà avrà più di 65 anni. Chi porterà avanti l’economia? Chi pagherà le pensioni? Già oggi, interi comparti produttivi stanno in piedi grazie alla manovalanza immigrata: pensiamo ai settori agroalimentare, edile e manifatturiero. Pensiamo ai riders, ai corrieri dell’e-commerce, alle “badanti” (sono un milione e mezzo, quasi tutte donne straniere: se non ci fossero loro, il nostro welfare collasserebbe).
Sebbene agli immigrati siano in genere riservate le mansioni meno qualificate e retribuite, il loro contributo alla crescita della ricchezza nazionale vale un tesoretto: oltre 8 punti di Pil. Non solo. Gli immigrati versano ogni anno 8 miliardi di contributi sociali e ne ricevono solo 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali. Gli imprenditori lamentano la carenza di manodopera per spingere la ripresa. Servirebbero almeno 160.000 (secondo gli studi più prudenti) nuovi ingressi annui di lavoratori stranieri. Ma l’ultimo decreto flussi ne prevede 27.700 (più 42.000 a termine dedicati al lavoro stagionale).
Il mondo economico vorrebbe aumentare le quote, quello politico tende a innalzare muri. Ma poiché le migrazioni fanno parte della storia dell’umanità – impensabile e irragionevole pensare di bloccarle –, la gente continuerà a spostarsi per vie illegali e insicure.
Oggi le leggi costringono moltitudini di persone – di cui abbiamo in larga parte bisogno – a vivere nell’ombra e alimentano situazioni di sfruttamento e di economia criminale. I rimpatri forzati, poi, non funzionano: costano troppo, mancano accordi di riammissione con i Paesi di origine e non frenano la voglia di partire né di riprovarci.
Anche il refrain “aiutiamoli a casa loro” è equivoco: le migrazioni non sono una patologia, curabile con lo sviluppo. Oltretutto gli studi sul fenomeno sono chiari: la crescita del reddito medio fa aumentare – quantomeno nelle prime fasi di sviluppo – la propensione a emigrare.
Dovremmo semmai scongiurare le migrazioni forzate, evitando di saccheggiare materie prime e terre fertili dei Paesi poveri, o vendere armi che alimentano guerre, o finanziare regimi sanguinari. Dovremmo inoltre accelerare la transizione energetica verso le rinnovabili: i cambiamenti climatici causano decine di milioni di migranti dai territori più vulnerabili.
In realtà l’emigrazione, di per sé, è una leva di sviluppo: Le rimesse degli emigrati africani verso i loro Paesi di origine (80 miliardi di euro lo scorso anno) valgono assai più degli aiuti elargiti dalle nazioni ricche. E i migranti lo sanno bene. Morale: continueranno ad arrivare, niente e nessuno li fermerà, come l’acqua che scende dalle montagne troveranno mille varchi per raggiungere il mare. E questo flusso inarrestabile sarà una benedizione: la nostra salvezza.
Marco Trovato
(direttore editoriale Rivista Africa)